Mohanad Yakubi

«La velocità del pensiero nel nostro secolo è molto più alta di quella delle nostre emozioni. Le immagini sono lì, ognuno le utilizza per una mobilitazione politica ma il cinema è un’altra cosa. Ci è voluto tempo perché venissero fatti film capaci di riflettere in profondità sul genocidio armeno o sulle dittature militari in America latina, è un processo che richiede una lunga elaborazione. Noi come registi palestinesi in questo momento non possiamo muoverci nella ’normalità’. I nostri film devono contribuire alla discussione politica altrimenti non servono. La mia famiglia ha lasciato Gaza come è già accaduto nel 1948, e come continua a accadere nella nostra storia di colonizzazione. Per questo le immagini hanno bisogno di una struttura, diventano archivio solo quando è permessa la riflessione sugli eventi che le riguardano. Adesso per il genocidio in atto non è possibile, tutto sta ancora succedendo, le immagini sono cronaca e non si può creare altro». È da qui che Mohanad Yakubi risponde alla domanda «Cosa può fare il cinema nel XXI secolo?», posta dai «Cahiers du cinéma» nel mese di febbraio che Cinéma du Reel, il festival del documentario che si è chiuso ieri a Parigi, ha fatto propria in un’edizione caratterizzata da opere nelle quali le storie narrate ne affermavano un terreno di sperimentazione.

Mohanad Yakubi
Un filmmaker non è solo un artista, deve esprimere la coscienza della sua comunità. Ora noi palestinesi combattiamo per sopravvivere Oggi più che mai si tratta di un confronto importante, che riguarda appunto il senso stesso del fare- immagini, il loro valore e peso specifico dentro e al di là della cronaca e della proliferazione in rete; l’uso che se ne fa e la formazione di uno sguardo consapevole ma anche quello spazio di prossimità e al tempo stesso di una distanza che appartiene al lavoro sul reale.

IL PUNTO di partenza, e il centro della discussione, è ancora una volta Gaza mentre poco distante dal Centre Pompidou sfilava la manifestazione contro la guerra e contro il genocidio in atto in Palestina tra le colonne di blindati della polizia schierati in numero spropositato sin dal mattino. Yakubi è palestinese, filmmaker, autore di molti cortometraggi e lunghi, fra i fondatori di Idioms Film nel 2004, a Ramallah, società nata con l’obiettivo di produrre film palestinesi indipendenti e di dare loro un accesso al mercato internazionale. E di Subversive Films, un collettivo che lavora sulla ricerca, la conservazione e la diffusione del cinema militante. Dice: «In questo momento voglio sopratutto essere connesso con la mia comunità. Farò delle coproduzioni con il Sudafrica, voglio distribuire lì i nostri film. Da parte di alcuni paesi dare dei soldi si è rivelato un modo per costringerci al silenzio. La mia missione è aiutare il mio popolo a conquistare una vita migliore, e far capire a tutti cosa stiamo vivendo. Un filmmaker non è soltanto un artista, deve esprimere la coscienza della sua comunità. È il designer di ognuno dei suoi processi. Ora noi palestinesi siamo di fronte all’emergenza, aspettiamo il cessate il fuoco da sei mesi. Voglio costruire un network, creare delle strutture, dobbiamo combattere per sopravvivere». R21 Aka Restoring Solidarity (2022), il suo film più recente raccoglie venti corti militanti per la lotta palestinese in 16 millimetri conservati a Tokyo, realizzati da diversi registi fra gli anni Sessanta e Ottanta e diffusi dai movimenti della sinistra radicale giapponese. Le immagini ci mostrano la vita nei campi per rifugiati, diverse interviste ai leader dell’Olp, frammenti di routine quotidiana che appaiono ancora più potenti nel loro essere ancora «attuali». Ma l’idea che fonda la ricerca di Yakubi è proprio questa: interrogarle per connetterle al presente, e in questo caso a una resistenza di solidarietà politica transnazionale che guarda in parallelo gli anni Settanta e la contemporaneità. È il suo un archivio che parla, che dice dell’oggi attraverso la storia col giusto lavoro di distanziamento in cui affiorano le costanti di una realtà.

«FRANCAMENTE mi sento un po’ perduto. Invece di chiedermi cosa può fare il cinema mi chiedo cosa possiamo fare noi, cosa posso fare io, perché mi sembra assurdo stare in un posto, parlare, pretendere una normalità mentre altrove succedono cose orribili. Non vivo più in quella che dovrebbe essere la ‘mia casa’ ma sono un rifugiato di lusso, nessuno ha bombardato e distrutto il mio appartamento né mi ha cacciato via. Ogni giorno mi chiedo: ‘E adesso?’. Forse discutere in una piccola comunità può permetterci di guardare meglio ciò che abbiamo fatto nel mondo».

Avi Mograbi
Non so chi può sfidare il governo israeliano e come, nessuna critica li ferma, continuano a sganciare bombe sulle persone dicendo che sono obiettivi Avi Mograbi israeliano, regista, attivista, dissidente vive ora a Lisbona. Il suo film del 2021, The First 54 Years – An Abbreviated Manual for Military Occupation indaga il funzionamento e le pratiche dell’occupazione israeliana nei Territori palestinesi. Uno spaziocidio colonialista applicato come arma sistematica di cancellazione seguendo «regole» di violenza, negazione del diritto, sottrazione di vita, che a ogni capitolo si fanno più cruente. All’origine c’è il lavoro fatto dal regista con Breaking the Silence, Rompere il silenzio, il movimento nato in Israele nel 2004 per iniziativa di Yehua Shaul che raccoglieva le testimonianze di chi aveva prestato il servizio militare nei Territori occupati per spiegare all’opinione pubblica israeliana quale era veramente lì la situazione, e in che condizioni si trovavano i palestinesi. Racconta Mograbi: «C’era un grande archivio di testimonianze che continuava a crescere, a volte uscivano sui giornali provocando forti discussioni. Avevamo organizzato una mostra con le immagini prese dai militari nella West Bank e intorno a Hebron (Al-Khalil), che era stata un grande successo. Loro e altri erano venuti insieme alle famiglie per spiegare di cosa erano parte e quanto avevano documentato. A un certo punto Breaking the Silence è diventata una vera e propria organizzazione, forse una delle più detestate in Israele, l’attuale primo ministro ne è stato fra i maggiori detrattori. La raccolta dei materiali seguiva criteri precisi: si era stabilito che le testimonianze riguardavano chi era stato in servizio dal Duemila, con la seconda Intifada, e queste raccolte erano rese visibili tramite i media o le pubblicazioni. Nel 2017 coi cinquant’anni di Occupazione, abbiamo deciso di allargare le testimonianze includendo quelle di chi era stato militare nei Territori dal 1967 al Duemila, e abbiamo iniziato a creare una narrazione anche per immagini. Mentre lavoravo al montaggio di quella che doveva essere una cronologia degli eventi come regista e come figura attiva dell’associazione mi sono reso conto che era una storia molto più vasta, che riguardava il concetto stesso di occupazione – nel contesto specifico ma che potrebbe estendersi a altri luoghi. Ho chiesto di poter fare il mio film che non sarebbe stato quello di Breaking the Silence. All’inizio avevo messo insieme le testimonianze ma non funzionava: c’erano oltre tre ore di materiali, le ho mostrate ai miei figli che si sono distratti mentre guardavano. Per non perdere il pubblico ho deciso di muovermi diversamente. Mi sono concentrato sull’aspetto dell’azione eliminando quello della riflessione, in cui tutti dicevano come si sentivano rispetto a ciò che avevano fatto, mettendo poi in campo anche me stesso. E alla fine cosa era questa compilation di testimonianze se non un perfetto manuale tecnico-strategico di occupazione militare?». Così ascoltiamo le procedure israeliane (irruzioni notturne, posti di blocco, controlli), vediamo nelle immagini private dei militari i rastrellamenti, gli espropri, la paura negli occhi dei bambini. A questo fanno da contrappunto le osservazioni del regista tra geopolitica, storia, effetti di tale situazione.

Avi Mograbi

E ADESSO? «Il titolo era anche ironico ,ora suona terribile perché siamo già nei successivi 54 anni di occupazione» dice Mograbi. E aggiunge: «Non è chiaro se e quante persone avrebbero voglia di parlare oggi. Allora ci ponevamo costantemente domande sui nostri obiettivi, sul senso di quell’archivio, nonostante le delusioni resistevamo pensando che la conoscenza ha un potere e se le persone hanno modo di sapere qualcosa può cambiare. Adesso mi sembra di avere davanti un muro, mi dico che non possiamo nulla se non accumulare materiali che aiuteranno chi verrà in futuro a scoprire come era il mondo prima. Non so chi può sfidare il governo israeliano e come. Purtroppo nessuna critica li ferma, continuano mandare bombe sulle persone dicendo che sono obiettivi militari. Non credo che la nostra parola preoccupi in alcun modo questo potere».