La politica senza effetti e lo Stato debole
Un precetto della strategia militare seguita da Napoleone, senza troppo successo, è stato l’intendance suivra. La frase si riferisce all’opportunità per l’esercito di muoversi in modo indipendente dalla presenza di infrastrutture di supporto, contando solo sulle risorse del territorio occupato. La frase, successivamente, è stata resa celebre da De Gaulle in un’intervista televisiva del 13 dicembre 1965, a cavallo fra i due turni dell’elezione presidenziale francese. In quell’occasione, De Gaulle si riferiva al primato della leadership politica sull’infrastruttura attuativa di tipo tecnico-economico, che avrebbe dovuto semplicemente adeguarsi all’orizzonte deciso dalla politica.
È, questa, una concezione della politica figlia della sequenza “intenzione-modellizzazione-applicazione-realizzazione”, dove il primato della politica e dell’ideazione pone in secondo le infrastrutture necessarie per generare gli effetti attesi. Una concezione al contempo ingenua e arrogante, con l’obiettivo di rassicurare il decisore che, alla fine e in qualche modo, le sue decisioni sovrane troveranno realizzazione. Un’idea dove si vede che la politica si legittima anche attraverso la sua capacità di generare effetti, quindi associando la sua azione a una o più discontinuità tra un “prima” e un “dopo” in risonanza con la vita quotidiana delle persone e dei luoghi.
La distanza tra intenzione politica e attuazione caratterizza l’azione pubblica del Paese. Così, anche politiche innovative come la “Strategia Nazionale per le Aree Interne” – nata nel 2013 su impulso dell’allora Ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca – scontano limiti attuativi importanti. L’ultimo rapporto sul monitoraggio della Strategia, infatti, segnala che nel ciclo di programmazione 2014-2020 tra le 72 aree progetto solo il 4% dei progetti risultavano terminati fino alla fase di liquidazione dei pagamenti, il 15% risultavano conclusi, il 58% ancora in corso e quasi un quarto (il 23%) non erano stati neppure avviati. Le cause sono di diverso tipo, prima fra tutte è proprio il carattere fortemente innovativo della Strategia, che ha sollecitato i diversi livelli amministrativo-burocratici (europei, nazionali, regionali e comunali) a non lavorare più “per silos” e in modo separato; a misurare non i meri adempimenti procedurali per osservare invece gli effetti concreti; a tessere nuove forme di cooperazione tra strutture tecnico-amministrative, società locali e politica. Un tentativo ambiziosissimo, che ha retto sino a che è stata garantita la copertura politica e la continuità del gruppo di lavoro originario, con persone, risorse, poteri, competenze e strutture, ma che ha via via perso “presa” ed è stato ridimensionato dal contraccolpo di quelle stesse amministrazioni che avrebbe dovuto contribuire a riformare.
Una storia analoga ce la racconta la difficile attuazione del PNRR, affidato a una Pubblica Amministrazione ridotta all’osso. I ritardi non sono separabili dalla debolezza della struttura di attuazione, cioè dalla Pubblica Amministrazione. I dati disponibili indicano che fra i 27 Paesi europei l’Italia è quello che ha il più alto rapporto fra popolazione e dipendenti pubblici. Lo scarto rimane se, invece di considerare i pubblici dipendenti in senso stretto, consideriamo gli addetti totali riferiti ai diversi regimi di esternalizzazione. In questo quadro, i Comuni sono stati fortemente sacrificati. I dati diffusi a fine gennaio 2023 dall’Istituto per la finanza e l’economia locale mostrano che dal 2010 al 2020 il numero di dipendenti comunali nel nostro Paese si è ridotto del 24% (-112.000 unità in servizio), e nello stesso periodo la spesa per il personale si è ridotta del 19% (-3 miliardi di euro).
Il PNRR, da questo punto di vista e non solo, rischia di essere un’occasione persa. Un fuoco di paglia che brucia fino a che c’è ossigeno, senza però generare effetti strutturali. Il Piano investe circa 270 milioni all’anno in media per sei anni su alcuni provvedimenti di riforma della pubblica amministrazione, ma non sul punto cruciale dell’aumento dell’organico. Si legge che la pubblica amministrazione assumerà nel quinquennio 2022-2026 quasi 800.000 lavoratori. Ciò è vero, ma corrisponde a un’espansione irrisoria del numero di addetti. Le assunzioni aggiuntive rispetto ai pensionamenti attesi e alla loro sostituzione sono meno di 45.000, corrispondenti all’1,3% in più rispetto allo stock attuale. La “riforma Bernini” sulla riforma dei contratti di ricerca per Università e CNR va nella stessa direzione, con un’ulteriore proliferazione delle forme di precarietà che caratterizzano la vita accademica.
Senza un forte e coraggioso presidio dell’attuazione, senza mettere al centro le infrastrutture socio-tecniche necessarie per la creazione degli effetti desiderati, la politica perde ulteriore credibilità e la riforma dell’azione pubblica si fa sempre più difficile. Per alcuni, questo è l’effetto che si vuole ottenere e chi non vi si oppone ne è complice silente.
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