All’interno di un dibattito dominato dalle questioni interne (la pandemia, la crisi demografica e la stagnazione economica), i quattro candidati presidenti del Partito liberaldemocratico del Giappone – Fumio Kishida, Taro Kono, Seiko Noda e Sanae Takaichi – hanno dato poche indicazioni rispetto alla postura diplomatica che intendono adottare se eletti e confermati a capo del governo. Soprattutto per non relegare il paese arcipelago a un ruolo di second’ordine negli assetti regionali. I solchi sono già tracciati: pare scontato che il Giappone post-Abe/Suga dovrà contribuire al fronte Indo-pacifico a guida Usa e proseguire sul percorso di rafforzamento militare avviato nel 2012. Saranno perciò determinati le sfumature.

Da ministro degli Esteri più longevo della storia postbellica del paese – curiosamente superando il padre dell’ex premier Abe, Shintaro – Kishida dà relativamente ampio spazio alla politica estera nel suo programma. Con lui a capo della diplomazia dal 2012 al 2017, Tokyo ha modificato le proprie linee guida in materia di assistenza militare ai paesi in via di sviluppo, preludio di un più ampio intervento legislativo che, a settembre del 2015, ha esteso le prerogative di intervento all’estero in missioni internazionali o a sostegno di forze militari alleate in teatri di crisi.

Negli otto anni di Shinzo Abe al potere, la torre di controllo della diplomazia giapponese è stata accentrata nell’ufficio del primo ministro, il kantei. E quindi Kishida tocca punti cari ai “falchi” del partito come la restituzione dei cittadini rapiti dalla Corea del Nord o la firma di un accordo con la Russia sulle isole Curili, contese tra Tokyo e Mosca dalla fine della Seconda guerra mondiale. Pone poi l’accento sui diritti umani e sui diritti universali, per la protezione dei quali anche il Giappone deve far sentire la propria voce, istituendo un organo ad hoc nel kantei.

A parte per la questione dei diritti umani, Kishida, più vicino alle correnti liberal del partito, non si sbilancia troppo sulla Cina. E così fa Noda, che, nel corso di un dibattito ospitato tv, citando i rapporti profondi a livello economico tra Cina e Giappone, ha però rilevato l’importanza di creare un sistema di deterrenza nel rispetto della storia pacifista del Giappone. Sulla Cina, Noda aggiunge poi che il Giappone deve assumersi «il ruolo di mediatore» nel conflitto a distanza tra Washington e Pechino per contenere i possibili effetti negativi delle ostilità sulla propria economia.

Spregiudicata e apertamente provocatoria, invece, la linea di Takaichi che ha affermato che da primo ministro visiterà il santuario Yasukuni perché «ideali e principi» valgono più dei profitti delle imprese. L’ex ministra degli interni e delle comunicazioni, in passato, si è distinta per un approccio energico – celebre la sua minaccia, nel 2016, di revocare le licenze di trasmissione alle emittenti che ospitavano programmi politicamente «non equilibrati» — e revisionista rispetto alla storia patria – nel 2014, da capo del consiglio per le ricerche politiche del suo partito, chiese al governo di riconsiderare la revisione della dichiarazione Kono (Yohei, padre di Taro) che riconosceva l’esistenza del sistema delle cosiddette stazioni di conforto, dove centinaia di donne furono costrette a prostituirsi per i soldati giapponesi tra anni ‘30 e ‘40 del secolo scorso. Pochi giorni fa, ha pubblicato sul suo profilo Facebook un post su una sua conversazione da remoto con la presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, in cui, quasi da leader in pectore del paese, ha parlato di come incrementare gli scambi con Taiwan, anche sul fronte della sicurezza.

Non a caso, alle sue spalle, ci sarebbero l’ex premier Abe e gli ultraconservatori del partito. infine, Taro Kono. L’attuale ministro per le riforme della pubblica amministrazione e per la campagna vaccinale pare godere del favore degli elettori che ne apprezzano il modo di comunicare diretto – tra l’altro, ha 2,5 milioni di follower su Twitter – ma non avrebbe sufficiente consenso interno al partito, dove qualcuno lo bolla come «un ragazzino», «un alieno» e «un matto». Eccezione nel suo partito, ad esempio, Kono è per la decarbonizzazione, che il premier uscente Suga ha promesso entro il 2050, e contrario al nucleare.

Kono è per il momento rimasto ambiguo sulla direzione di politica estera che un suo eventuale governo potrebbe prendere, concentrandosi sulle riforme interne.
Per lui parlano tuttavia alcuni precedenti. Durante una visita di stato in Cina nel 2018, da ministro degli Esteri, pubblicò via Twitter un selfie con la portavoce del ministero degli esteri cinese Hua Chunying, costruendosi una fama da «amico della Cina». Ciononostante, da ministro della Difesa durante un intervento al Csis di Washington nel 2020, Kono ammise che il suo governo considerava la Cina come «una minaccia alla sicurezza nazionale». Oggi sembra tornato sui suoi passi. La diplomazia con la Cina è una questione di «rapporti umani» e Xi Jinping è il benvenuto in Giappone – nel 2022 cade il 50esimo dalla normalizzazione dei rapporti tra Pechino e Tokyo.

Formato in scienze politiche alla Georgetown University, Kono ha un profilo certamente più internazionale dei suoi concorrenti. La sua premiership potrebbe peraltro dare alla diplomazia giapponese un respiro multipolare. Nel 2018, Kono divenne il primo capo della diplomazia giapponese a partecipare al forum sul Mediterraneo co-organizzato dalla Farnesina.

In quella sede, sottolineò che i rapporti tra Tokyo e Bruxelles non passavano solo dai quintali di tonno maltese trasformati in nigiri nei sushi-bar dell’arcipelago.
Con gli accordi economici e strategici del 2019, Tokyo è diventata un perno della strategia europea in Eurasia e nell’Indo-Pacifico. Gli accordi di fornitura di tecnologia militare – Roma ne ha firmato uno nel 2017 –, le esercitazioni navali e le missioni antipirateria congiunte a largo del Corno d’Africa ne sono un esempio.