Ho nostalgia del presente. Questo desiderio è detto in Prima della rivoluzione e l’attraversa. È il tema ossessivo di tutto il cinema di Bertolucci. Monumentalizzata nell’Ultimo imperatore, onnipresente nei film successivi, l’assenza del presente (così semplicemente e automaticamente «realizzata» nel cinema), è il motivo di fondo avvertito intensamente da ogni suo film, la lontananza fredda e struggente da quel che nel vedersi sembra più vicino. La sentenza sull’amore più volte citata o mascherata in Bertolucci, si potrebbe formulare così: non esiste il cinema, esistono solo i film quali prove di esso.

EPPURE Bertolucci si strugge di cinema. Solo lo spazio cinema gli permette la nostalgia del presente. Anche la sterminata Cina è inclusa nella parola «(cin)em(a)», si diverte a giocare nella minuscola videocartolina che dai sopralluoghi ironicamente accompagna e precede il suo film più costoso e iperprodotto («ultimo» anche in questo: un film del genere, oggi, ma anche semplicemente dopo il postmaoismo capitalista uscito allo scoperto dopo Tien An Men, sarebbe impossibile a farsi, inimmaginabilmente costoso senza un’armata rossa quasi gratuita).

E anche le «presenze» più evidenti non sono quello che sono. Gli attori, affidati al loro inconscio, scelti considerati desiderati per esso, non sono attori che rappresentano un personaggio o si calano in esso; sono reminiscenze, allusioni fisionomiche, echi figurativi, nodi di intrecci privati. Piuttosto tracce, rimbalzi, resti, fino al puro monumento di cinema e memoria condensata di esso che in Ultimo tango a Parigi è Marlon Brando; corpi, concrezioni evidenti di nostalgia del presente, di resistenza nell’occupare il proprio spazio, mutanti e identici proprio in quanto mutanti.

La forma bertolucciana di resistenza all’asfissia cinefila è l’assunzione di essa fino a un rilascio esasperato. Il set non è il luogo in cui ambientare una situazione o una vicenda, né il taglio o l’illuminazione o la ricostruzione di esso. Il set è la situazione (vedi il modo fantasticamente preciso in cui si inventa il percorso poetico del reportage televisivo La via del petrolio). Il set è lo spazio dello spazio, lo spazio in cui gli spazi diventano attori (…).
Bertolucci di Io ballo da sola e di L’assedio è il solo e primo cineasta a (a far) risentire malinconicamente (in apparenza in tutt’altre narrazioni affaccendato) la museificazione del mondo e della vita stessa, la venezianchiantizzazione e la disneyzzazione paesaggistico culturale del paese Italia, in questo avanguardia europea. Il venir meno dello spazio infine nel condensarsi e annullarsi ultimo ascetico dell’interno chiuso stesso in cui si forma(va) il cinema.

PER ORA, il viaggio si interrompe in un’altra chiusura, in un’altra insoluta e insolente continuità nel percorso dell’ultimo partner ridicolo (per citare i tre film capitali più assurdamente sottovalutati) dentro il maelstrom della nostalgia del presente. Dreamers non è il film del sessantotto rivoluzione mancata, né del dopo rivoluzione. È il film del «dopo prima della rivoluzione». Tutta l’asfissia della vita-museo entra nell’ultimo museo sua maestà il cinema, dove di nuovo per gioco si vive si muore si finge che l’aria possa rientrare nell’acquario. Il «grande regista» è/siamo il piccolo imperatore di ogni nostro «cinema», sparisce di colpo nell’istante infinito brevissimo che è la nostra vita, abbracciando il partner sosia doppio che il mondo è, in un falso movimento che non ci dimenticò neanche quando ci dimenticheremo.

*Estratto di un testo scritto nel 2008 in occasione della retrospettiva dedicata a Bertolucci al Festival di Sintra