Antonio Barracano boss di oggi rispettato e temuto pure dai suoi due feroci cani che nessuno può avvicinare possiede la difficile arte di saper riconoscere la «gente per bene» e «la gente carogna», per questo tutti si inchinano alla sua autorevolezza e quando c’è qualcosa, una lite, un contenzioso da risolvere nel quartiere è da lui che vanno a cercare la soluzione. È il sindaco del Rione Sanità, la sua villona abusiva sotto al Vesuvio, di ostentato lusso è un fortino e una meta di pellegrinaggi dove lui garantisce quella «pace sociale» che è la missione del suo ruolo. Così quando gli si presenta Rafiluccio Santaniello (Salvatore Presutto), il figlio diseredato del panettiere che vuole uccidere il padre perché lo ha ha messo alla porta e ridotto in miseria, la questione è: come fermare quel ragazzo con la sua rabbia disperata di fronte a un padre che proprio integerrimo non è?
Il Sindaco del Rione Sanità di Mario Martone, primo titolo italiano nel concorso comincia da qui, e questa ricerca di etica e morale nella Sanità contemporanea diviene quella del regista verso la rappresentazione della realtà confermandone la necessità di una poetica che si nutre dal confronto col proprio tempo. Il testo di Eduardo De Filippo lo aveva prima portato a a teatro, rendendo già lì l’universo eduardiano contemporaneo, in quella sua ricerca che non separa passato/presente, e sia che si confronti col Risorgimento che con Leopardi cerca i segni di una presenza dell’uno nell’altro guardando ai movimenti della storia . Ma certo questo film non è teatro filmato, e in qualche modo era parte della scommessa, perché se sul palcoscenico la riconoscibilità dei «modelli» di immaginario criminale attuali era sfumata pur nella loro necessaria attualizzazione, sullo schermo poteva divenire un condizionale.

NEL PASSAGGIO del sindaco eduardiano, figura più ottocentesca, e distillata dall’interpretazione del suo autore, che si imponeva come unico giudice su un popolo ignorante e indifeso al camorrista odierno Martone (sceneggiatura scritta insieme a Ippolita di Majo) attua un duplice detour: nell’universo e nella lingua di Eduardo spogliati delle iconografie che gli si sono depositate intorno, e in quelli della napoletanità criminale «alla Gomorra». Non ha bisogno di azione o di scimmiottare i fatti in una pretesa di naturalismo perché la realtà la reinventa, anzi la anticipa nella parola. È qui che la sua regia di perfezione mai sovrastante consuma gli scontri, è qui che si giocano le strategie, che si palesano il nostro tempo e quelle eredità arcaiche o di sopraffazioni e di violenza, le miserie intellettuali prima che materiali, lo scontro tra diverse visioni di etica e di giustizia, i paradossi di una pacificazione «armata» che cerca di sanare il conflitto essendo trama del crimine. In questo movimento tutto cinematografico Martone rende dunque la parola immagine facendola scorrere nel corpo collettivo dei suoi magnifici attori – a cominciare da Francesco Di Leva nel ruolo di Barracano e Massimilano Gallo, in quello del suo antagonista, il fornaio Arturo Santaniello. E senza sparatorie, movimenti superflui o tronfi della macchina da presa – complice al montaggio nel respiro del film Jacopo Quadri – entra nella profondità dell’immaginario per liberarlo da stereotipi e facili identificazione facendo quello che il cinema sempre dovrebbe fare, cioè precedere, inventare e non assecondare del presente e del reale la sua piatta o più o meno gonfiata riproduzione.

LA GEOMETRIA di Martone non è lineare procede piuttosto per opposizioni; costruisce le opposizioni tra esterno – la città – e interno, la villa e l’appartamento del finale; a fare da controcampo al boss c’è il dottore, nella villa opera clandestinamente, ricuce, cura perseguendo l’obiettivo impossibile di cancellare la sostanza di quella realtà. Vorrebbe partire, andare in America ma è intrappolato lì dai ricatti e da sé stesso, presenza tragica che in Roberto De Francesco, l’unico attore che non era sul palcoscenico, trova il suo compimento di altissima potenza fisica e emozionale, l’equilibrio di silenzi, rabbia, dolore, ferocia di uno sguardo che di quel mondo prova a minare le certezze.

E LO INTERROGA nei suoi limiti: può essere santo Antonio Barracano o eroe? Forse. Ma come può essere sindaco, colui che eletto dalla società civile dovrebbe governarne il funzionamento? Ed è proprio questo paradosso che il film illumina con precisione: un vuoto, un’assenza, la distanza delle istituzioni, di quella stessa società civile che si riempie coi miti dai contorni incerti delegati però a rispondere a quei bisogni ignorati e a garantire una tregua e persino una «morale» qualunque ne siano le fondamenta. Il film uscirà nelle sale come evento speciale il 30 settembre e il 1 e 2 ottobre.