«La semplice regia è il lavoro più facile del mondo» dice Orson Welles nella conversazione con Peter Bogdanovich (Il cinema secondo Orson Welles, il Saggiatore), stanno parlando d’altro ma potrebbe essere The Other Side of the Wind. Il film «incompiuto» è arrivato ieri sugli schermi veneziani – un’altra creatura di Netflix, la distribuzione in streaming è fissata per il 2 novembre – grazie all’ostinazione di Peter Bogdanovich, dei produttori Frank Marshall (insieme a Filip Jan Rymsza), che ha iniziato lavorando con Welles, a un team guidato (al montaggio) da Murawski e dalla colonna sonora stordente e magnifica di Michel Legrand.

Hanno seguito gli appunti, le note di sceneggiatura, all’epoca Bogdanovich era quasi un pupillo di Welles, il suo «biografo» e studioso ufficiale e nel film recita i personaggio di se stesso – e studiato il montato, quei cinquanta minuti che Welles aveva messo insieme prima che il progetto fosse messo da parte per sempre. Se è questo il film che il regista di F for Fake aveva in mente non lo sapremo mai ma poco importa. Così come non è importante l’idea stessa di finitezza, se sia compiuto o meno, perché The Other Side of the Wind non può essere finito, la sua materia è il cinema stesso, il suo movimento, un respiro, il divenire che sui bordi dei fotogrammi mette alla prova lo sguardo delle spettatore e il proprio essere.
Film nel film, racconto di una vita, epico e malinconico, jam session di immagini caustica e tenerissima contro la «finitezza» della storia, dello script, della scadenza di un cinema in cui irrompe prepotente la vita, e forse anche il contrario, legame viscerale, incessante. Infinito appunto.

Chi è Jake Hannaford, una leggenda per alcuni, una catastrofe per altri? I giovani lo adorano, lo inseguono, lo studiano: è un mito. A rispondere alle loro domande c’è Otterlake (Bogdanovich) il suo «biografo» ufficiale che ha raccolto centinaia di bobine di conversazioni, tanto da poter rispondere a ogni domanda.
È il suo allievo amatissimo che ora lo ha superato girando un film di successo – motivo di stridore tra i due – mentre Hannaford continua a litigare coi produttori, è tornato a Hollywood dopo anni in Europa e il film a cui sta lavorando non avanza. È il giorno del suo settantesimo compleanno, l’amica di una vita, Zarah Valeska (Lilli Palmer) ha organizzato una festa, sono tutti invitati, giovani fan, critiche acide, personaggi del cinema, sarà anche l’occasione per mostrare il film. Tutto verrà registrato, le macchine da presa sono ovunque e sempre accese, il loro obiettivo è preciso e implacabile come un’arma . Ma cosa filmano? Cosa è che raccontano? Quale è la verità e cosa invece il suo paradosso, cosa è riproducibile e cosa invece rimane comunque oscuro?

E il film? I soldi sono finiti, l’attore protagonista, John Dale è scomparso. Ci sono un ragazzo, Dale, e una ragazza, «la Meticcia» la chiamano (è Oja Kodar) sempre nudi. Si inseguono, si guardano, fanno sesso. Non ci sono parole, solo sguardi, e il ragazzo e la ragazza (l’inizio di tutte le storie), un altro uomo geloso li scaraventa nel fango fuori dall’auto. Intorno alla piscina frammenti di frasi, il cinema, fare cinema, criticare il cinema. Hannaford sembra più interessato a una ragazzina, la ascolta nei suoi progetti, ha la faccia magnifica di John Huston, sigaro e alcol. Ho invitato i giovani perché Zarah vuole che io abbia un rapporto con loro. Ma chi è Hannaford?
La notte rotola, l’elettricità salta, si accendono le candele per la torta, la fine sarà l’alba in un drive in (L’ultimo spettacolo?) alla ricerca di uno schermo per quel film senza fine, e alla fuga del protagonista il regista risponde urlando nel megafono «Lasciatelo andare».

All’inizio Welles voleva fare un film «alla Godard», una specie di ironia delle Nouvelle Vague – «Bertolucci è sempre un mangia spaghetti» commenta a un certo punto. Ma The Other Side of the Wind col suo lisergico passaggio tra bianco e nero e colore, 35 millimetri e 16 millimetri, zoom impazziti è il racconto commuovente e magnifico nella sua sovraesposizone di sé, del regista e dell’intimità di un fare cinema che sfugge alle regole e alle imposizioni, che è lotta, fatica, follia. Quasi una autobiografia (o un’autofinzione) attraverso il fare-cinema, i film di un regista che non teorizza – come le più giovani generazioni che lo circondano, tutto è lì, «la regia è una cosa semplice».

La società dello spettacolo e lui, Orson Welles senza retorica né moralismi, in quel flusso di immagini parole davanti allo schermo vuoto. Battaglie e ambiguità. Tattiche e strategie, ai finanziatori non si deve mai dire di avere bisogno di soldi quando si chiedono fa dire Welles al suo alter ego Huston/Hannaford.
Discorsi su dio che è donna, sull’amicizia che come i film è una cosa pericolosa. È un viaggio nel suo cinema attraverso i luoghi e le immagini che lo compongono, un gioco di specchi – e non solo gli infiniti riflessi della Signora di Shangai – tra il deserto, Shakespeare, Otello in cui si riflette insieme al passato della propria opera una consapevolezza che forse tutto questo è già altrove, il grande regista studiato e amato e insieme archiviato. Eppure la questione è ancora la stessa quello che va o quello che non va, cosa funziona – secondo leggi del momento – e cosa no. La libertà dell’artista e la sua indipendenza, l’immagine e la sua forma che può moltiplicarsi all’infinito