La guerra, prima di dispiegarsi sul campo, attraversa un’insidiosa fase di preparazione. Comincia col rendersi pensabile, ossia non più esclusa dall’orizzonte del possibile, non più relegata in un passato che non può e non deve ripetersi. In seguito viene inclusa tra le emergenze che ogni società dovrà prima o poi saper fronteggiare, per divenire infine necessaria e financo normale risposta a determinate circostanze. Questo percorso incide profondamente sulla percezione che una società ha della sua propria natura e del suo futuro, sulla dipendenza dei governati dal potere sovrano, su quella disponibilità alla rinuncia e al sacrificio che va sotto il nome truffaldino di patriottismo.

Qualcosa di simile sta accadendo in un’Europa che, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, si considera sempre più esplicitamente in una condizione “prebellica”, che reclama con insistenza una forza armata comune all’altezza delle più gravi minacce, e che però fatica a farsi strada tra reciproche diffidenze e tradizionale affezione degli stati nazionali per i propri eserciti e la propria industria militare. Non piace, per esempio, a Berlino il commissario europeo alla difesa proposto da Ursula von der Leyen.

La redazione consiglia:
L’Europa lancia la macchina da guerra, ma con pochi soldi

Cosicché, nel frattempo, diversi paesi dell’Unione annunciano, e in qualche caso avviano, imponenti programmi di riarmo in proprio e dove, (quasi sempre), i soldi scarseggiano si andrà a prelevarli dalla spesa sociale. In particolare in Germania dove alla spinta militarista si affianca il masochistico divieto di ricorrere all’indebitamento pubblico. A metter fretta agli stati dell’Unione si aggiungono infine segnali di disimpegno statunitense dal fronte mediterraneo. Per ora più in funzione di spaventapasseri che di effettiva e improbabile sottrazione al proprio ruolo di gendarme globale. Che è e resterà a lungo irrinunciabile.

In questo quadro si comincia a riconsiderare, oltre all’incremento della spesa militare, il ritorno alla leva obbligatoria nei paesi europei che la hanno abolita, fra i quali Germania, Francia e Italia. La Svezia l’ha già reintrodotta nel 2017 con un sistema “semi obbligatorio” al quale il ministro della difesa tedesco, il socialdemocratico Boris Pistorius, vorrebbe ora ispirarsi per ripristinarla in Germania. Si tratta di arruolare, sulla base di questionari compilati dai giovani, un certo numero di soldati e soldate che solo in minima parte finirebbero sotto le armi contro la propria volontà. Ma è chiaro che si tratta di un sistema “a obbligatorietà variabile” e quel numero potrebbe sensibilmente crescere in determinate circostanze di allarme. Ma perché questa odiosa corvè, antieconomica, impopolare e inefficiente torna alla ribalta? La spiegazione andrebbe cercata nelle fangose trincee del Donbass, tanto più simili a quelle che hanno fatto da quinta alla macelleria della prima guerra mondiale che alle fantasie tecnologiche di una moderna guerra asettica, chirurgica, professionale, robotizzata e privatizzata.

La redazione consiglia:
Il grande nord mette l’elmetto

Il drone, protagonista assoluto dei conflitti in corso, poteva apparire come un wargame giusto al pilota che lo manovrava dalla sua postazione digitale oltreoceano per colpire a migliaia di chilometri di distanza l’auto talebana, non di rado centrando invece inermi cittadini afghani.

Ma gli sciami di droni, kamikaze e non, che si riversano oggi sull’Ucraina e su Gaza ammazzano e distruggono piuttosto alla cieca come i bombardamenti aerei e i colpi d’artiglieria. Su un fronte come quello del Donbass dove si muore arcaicamente a decine di migliaia strisciando nel fango per difendere o riconquistare qualche chilometro di campagna si può far conto su compagnie e professionisti guidati dal rapporto tra costi e benefici e quotati dalle leggi del mercato? Dunque la risposta è semplice: si ridiscute della leva obbligatoria perché le guerre non corrispondendo affatto ai modelli strategici futuribili ed essendo i professionisti altamente qualificati troppo pochi e preziosi, hanno impellente bisogno di carne da cannone, il cui consenso non è mai stato richiesto né previsto.

Qui sta anche la ragione per cui i paesi dell’Unione europea e della Nato non intendono fare da sponda ai renitenti e ai disertori russi o ucraini che siano, per non sdoganare figure che negano la propria obbedienza al potere coercitivo dello stato e con le quali potrebbero a loro volta trovarsi ben presto alle prese.

In questo clima “prebellico” qualunque accenno al ripristino della leva obbligatoria deve essere energicamente contrastato prima che diventi senso comune. Non è però cosa facile: la sinistra è stata tradizionalmente fautrice della leva di massa ritenendola uno strumento di salvaguardia della democrazia, nonostante svariati colpi di stato e conseguenti dittature militari, dalla Grecia alla Turchia, dal Cile all’Argentina, avessero ripetutamente smentito questa ingenua credenza. Ogni forma di militarizzazione coercitiva della società è sempre avvenuta a scapito della democrazia. E ad opera di un nemico che non è quello esterno.