Trump ha largamente distanziato i suoi più diretti concorrenti nei caucus repubblicani del Nevada, ottenendo 34.531 voti, ovvero più della somma di quelli ottenuti dal secondo e dal terzo arrivato, i due senatori Marco Rubio e Ted Cruz. Il 1° marzo ci sarà il cosiddetto Super Tuesday, in cui si vota in molti stati del Sud che rappresentano un robusto pacchetto di delegati alla convention di Cleveland, dove ci sarà la scelta del candidato per le elezioni di novembre.

Quindi la settimana prossima la situazione sarà più chiara ma, fin da ora, si può dire che la marcia di Trump sembra inarrestabile, a meno di cataclismi politici in questo momenti non prevedibili.

La possibilità di un recupero da parte di Marco Rubio, il candidato preferito dall’establishment, sembra remota. Trump è ormai il favorito per una combinazione di fattori che gli altri aspiranti repubblicani non hanno capito, o non hanno saputo controllare: prima di tutto l’estrema frustrazione degli elettori. Una frustrazione socioeconomica: dopo otto anni di crisi, di salari che stagnano, di ripresa dell’occupazione che in realtà nasconde l’espulsione permanente di milioni di americani dal mercato del lavoro la working class bianca non crede più alle promesse: «Si sentono isolati, senza aiuto, vittime di forze potenti che non capiscono e su cui non hanno presa» dice Noam Chomsky. Trump ha offerto loro come capro espiatorio l’immigrazione e l’islam, usando abilmente la cronaca degli attentati per fare proposte tanto provocatorie quanto irrealizzabili (deportazione di 11 milioni di immigrati, costruzione di un muro alla frontiera con il Messico, divieto di ingresso ai mussulmani).

C’è poi la frustrazione politica: la base del partito repubblicano non ha mai veramente accettato la legittimità della presidenza Obama e la sua mobilitazione ha fruttato le vittorie nelle elezioni parziali del 2010 e del 2014, che hanno riportato il Congresso sotto il controllo dei repubblicani. Nonostante ciò, i leader del partito non sono riusciti ad ottenere nulla di quanto promettevano quotidianamente agli elettori: l’abrogazione della riforma sanitaria, il rifiuto dei matrimoni fra omosessuali, la messa fuori legge dell’aborto. Di qui la ribellione della base, che ha trovato in Trump «l’uomo forte» che stava cercando. Infine, come diceva Napoleone, in guerra bisogna anche essere fortunati e Trump, fin qui, lo è stato: raramente gli altri aspiranti alla candidatura sono stati inetti come Jeb Bush, senza personalità come Marco Rubio, detestati da gran parte del partito come Ted Cruz, o semplicemente insignificanti come Chris Christie e John Kasich. Il successo del miliardario, oltre che al suo fiuto politico nel trovare il tono giusto, è legato anche alla mediocrità dei suoi avversari.

Ciò detto, il partito repubblicano ha come simbolo un elefante e sembra in grado di «digerire» perfino Trump, perché è un mito quello che le sorti delle elezioni vengano decise dalla personalità dei candidati. Prima di tutto, in paese politicamente spaccato in due, gli elettori votano per il partito: se guardiamo alla geografia politica degli Stati uniti scopriamo che da decenni il Sud e le grandi praterie votano repubblicano, il Nordest e la costa del Pacifico votano democratico. L’ultima volta in cui la California ha votato repubblicano è stato nel 1988, quasi 30 anni fa; l’ultima volta in cui il Kansas ha votato democratico è stato nel 1964, mezzo secolo fa. Nello Utah, i democratici vengono esibiti come curiosità, a San Francisco i repubblicani li mostrano ai turisti come fossero panda.

In novembre, gran parte dell’America voterà come sempre e tutto si deciderà nei cosiddetti swing states, gli stati dove spostamenti relativamente piccoli di voti possono far prevalere un candidato a danno dell’altro. Sono appena 8 su 50, anche se insieme rappresentano 33 milioni di votanti, un quarto del totale. Si tratta di quelli dove nel 2012 lo scarto tra Obama e Romney è stato inferiore al 6%: Florida, North Carolina, Ohio, Virginia, Colorado, Pennsylvania, New Hampshire e Iowa. Gli ultimi tre sono generalmente favorevoli ai democratici: l’ultima volta che la Pennsylvania ha dato una maggioranza ai repubblicani fu nel 1988. Anche Nevada, New Hampshire e Iowa sono «contendibili» ma è più probabile che restino nel campo democratico.

Per entrare alla Casa Bianca, Trump dovrà quindi vincere a tutti i costi in Florida e in tre di questi quattro stati: North Carolina, Ohio, Virginia, Colorado. Possibile? Sì, ma per il momento sia Hillary Clinton che Bernie Sanders appaiono più solidi e credibili di lui in un’elezione generale. Nel 2016 tutto può succedere, ma fin qui le primarie repubblicane hanno mostrato uno stato di forte confusione nel partito. Questo ha favorito Trump e probabilmente gli permetterà di conquistare la nomination. Vincere le elezioni in novembre è un’altra cosa.