I dati forniti ieri dall’Inps relativi ai primi tre mesi dell’anno in corso suonano come una campana a morto per le politiche dei governi Renzi e Gentiloni, e ciò che è più grave per il lavoro nel nostro paese. L’Istituto mette fine agli storytelling governativi sulle magnifiche sorti progressive del Jobs Act e dintorni. Ma certamente non possono stupire. Al contrario questi dati ci confermano delle semplici verità.

Si possono anche gonfiare i dati sull’occupazione con una pioggia di incentivi del tutto sproporzionati agli esiti effettivi. Ma questi non possono durare all’infinito. E appena finiscono la cruda realtà riemerge. Quella di un calo dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato del 7,4% sul primo trimestre del 2016. Se si guarda al saldo per i contratti a tempo indeterminato, comprendendo pure le trasformazioni, si ha un quadro solo apparentemente positivo di più 17.537 unità, in calo comunque rispetto a quello di 41.731 dei primi tre mesi del 2016 e di 214.765 del corrispondente trimestre del 2015, quando gli sgravi contributivi erano totali. Ma se si analizza l’andamento interno a questi mesi, il quadro diviene ancora più chiaro.

Il saldo positivo è dovuto esclusivamente alla variazione di gennaio (più 26.575) che era trainata dalle assunzioni di dicembre con gli sgravi previsti per il 2016. Mentre a febbraio e marzo di quest’anno il saldo è negativo. Le trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato (comprese quelle per gli apprendisti) si contraggono per un meno 6,8% rispetto al 2016.

Finiti gli sgravi i padroni sono tornati a usare i loro vecchi strumenti, ulteriormente oliati dal famigerato decreto Poletti che aveva eliminato ogni causale, rendendo di fatto il contratto a termine la forma normale e preferibile – dagli imprenditori – del rapporto di lavoro. Infatti le uniche a crescere sono state le assunzioni con contratto a termine e con l’apprendistato, mentre anche il lavoro interinale registra un significativo aumento ( più 14,4%).

Naturalmente le assunzioni a termine sono concentrate nei settori qualitativamente meno significativi, quali il commercio, il turismo, la ristorazione e le costruzioni. In un paese dove si inneggia al numero chiuso nelle università di filosofia non ci si poteva attendere altro. Né può ingannare il calo consistente degli interventi di cassa integrazione. Era così da diverso tempo e qualcuno parlava di ripresina. Mentre si trattava più semplicemente del fatto che si erano toccati i vertici nell’utilizzo di quell’istituto. Anzi ora c’è una novità rispetto al passato. Sono aumentati i licenziamenti di quasi tre punti e le domande presentate per la disoccupazione risultano maggiorate del 12% rispetto ai primi tre mesi del 2016. Chi entra in crisi vede meno possibilità di riprendersi.

Il lavoro non si crea togliendo l’articolo 18 e pagando lauti premi a chi assume. Le regole più virtuose sul mercato del lavoro – e quelle di Renzi e fotocopia sono l’opposto – possono anche facilitare l’incontro tra domanda e offerta del lavoro, ma non lo possono creare. Se non si mette in campo una robusta politica di investimenti pubblici, in picchiata da diversi lustri, in settori innovativi, che abbiano un contenuto occupazionale quantitativamente e qualitativamente significativo, il nostro paese e le giovani generazioni attuali e future sono condannate alla marginalità e alla miseria.