Riunire un’America profondamente spaccata, riconnettere l’America blu con l’America rossa, affrontare come una nazione il più possibile unita le grandi sfide senza precedenti del nostro tempo: un generoso proposito politico, forse solo un’ingenua illusione, durata neppure un anno e ora destinata a sciogliersi definitivamente come la neve che copre Washington nella prima ricorrenza di quello che il numero uno delle forze armate, il generale Mark Milley, definì “a Reichstag moment”, l’assalto insurrezionale al Congresso, un atto paragonabile all’incendio del parlamento tedesco nel 1933 che portò Hitler alla conquista del potere. “L’impensabile che diventa reale”, per dirla con le parole del leader democratico al senato, Charles Schumer.

Il Biden che inizia il 2022 non è più il presidente di un’impossibile riconciliazione nazionale, deve prendere atto che è vincitore di un’elezione che quasi tre quarti degli elettori repubblicani considerano tuttora illegittima, una menzogna diffusa da Trump e Steve Bannon, che ha anche il risvolto di rovesciare la realtà sul significato del 3 novembre 2020. Diventa la giornata della vittoria rubata da Biden, e dunque quella, la giornata del “golpe”, e il 6 gennaio quella della sacrosanta protesta di elettori defraudati.

Certo, Biden continua a sottolineare, e a rivendicare, il ruolo proprio di un presidente degli Stati Uniti, di esserlo di tutti gli americani, custode della costituzione, il cui valore sottolinea più volte ripetendo la frase iniziale del preambolo della Carta, We the People, noi il popolo, ma lo fa soprattutto in contrasto con il suo predecessore, l’ex-presidente, che non nomina mai per nome, destinato a passare alla storia come il regista – commander-in-chief ancora in carica – di un tentativo volto a capovolgere con la violenza la volontà legalmente espressa dal popolo.

Contro la sua indole e la sua “old school” di politico più incline al compromesso che allo scontro frontale, Biden annuncia che è venuto il momento della resa dei conti con il former president, e dei suoi seguaci. Un radicale cambiamento di rotta e di tono imposto da quello che attende Biden e i democratici, un anno elettorale decisivo, in cui a guidare gli avversari sarà ancora lui, il sovversivo, deciso a prendersi poi la rivincita nelle presidenziali del 2024.

Al centro della National Statuary Hall, uno dei luoghi simbolo della democrazia americana ed epicentro del tentativo insurrezionale visto in diretta da tutto il mondo il 6 gennaio 2021, Joe Biden parla per venticinque minuti, il tono severo e solenne. Non svolge semplicemente una requisitoria contro il rivale.

Nel farla, fatalmente mette a nudo il vero problema che svelano il tentativo di colpo di stato e il perdurante attivismo di chi l’ideò e lo promosse, con l’obiettivo di prendere loro, i golpisti, le redini del paese, con le prossime elezioni, elezioni “truccate” in partenza – denuncia Biden – con regole ad hoc negli stati e nei distretti controllati dai repubblicani.

Il problema al centro del discorso di Biden è la fragilità della democrazia americana. Non c’è uno scampato pericolo. Il pericolo, esistenziale, continua a incombere. L’America resta ferma al bivio spalancato dall’insurrezione di un anno fa: “È il momento – scandisce le parole il presidente – in cui dobbiamo decidere che tipo di nazione saremo, se saremo una nazione che accetta la violenza politica come norma? Se saremo una nazione che consente a funzionari pubblici di parte di rovesciare la volontà legalmente espressa dal popolo? Saremo una nazione che vive non alla luce della verità ma nell’ombra delle bugie?”.

La frattura ormai insanabile tra democratici e repubblicani è sottolineata da una giornata nella quale la ricorrenza del 6 gennaio è stata commemorata, nei due rami del Congresso, dai primi e ostentatamente ignorata dai secondi, se non trattata come un’iniziativa dichiaratamente politica e di parte. Il senatore Lindsey Graham, amico e confidente di Trump, ha definito il discorso di Biden il tentativo di “politicizzare” la ricorrenza “per resuscitare una presidenza fallita”.

L’eccezione in campo repubblicano, è la deputata Liz Cheney, critica aperta di Trump e per questo di fatto espulsa dal partito del suo stato, il Wyoming, che ne contesta la fede di autentica conservatrice. È la figlia di Dick Cheney, l’anima nera delle due presidenze Bush e delle sue avventure mediorientali. Una vicenda, questo conflitto dentro il Partito repubblicano, che dà la misura di quanto esso abbia rotto i ponti con la sua storia, con tutte le sue componenti tradizionali, non solo quelle relativamente progressiste, scomparse da un bel po’, ma anche con quelle più conservatrici, per diventare interamente la setta di Trump.

“Politicizzare” la ricorrenza sarà il mantra della controffensiva della cricca di Trump, che ieri avrebbe dovuto replicare con una sua conferenza stampa al discorso del presidente. Conferenza cancellata, su consiglio di Lindsey Graham, per avere il tempo di organizzare un’uscita forte a fine mese.

Chiaramente i repubblicani si sentono ulteriormente legittimati a inasprire la loro opposizione al Congresso, a far fallire le riforme di Biden. Nell’esacerbazione della polarizzazione Biden conta di poter rinsaldare un partito disorientato e diviso contro il nemico ben descritto nel suo discorso di ieri, che a questo punto, se non era già chiaro prima, non è più solo il nemico dei democratici, è il nemico della democrazia.