In Italia si consuma perlopiù pesce allevato, in vasca o in porzioni di mare, e la quota dell’import dagli allevamenti esteri è in costante crescita. Un documentario, Until the end of the world, diretto da Francesco De Augustinis che lo ha presentato quest’anno al MAXXI di Roma, si occupa diffusamente della vicenda allevamenti intensivi e del loro impatto sull’ambiente a livello globale; in genere la qualità e la sostenibilità dei prodotti dell’acquacoltura è legata a condizioni come le dimensioni delle vasche, la quantità di pesce in esse contenute, il rispetto di regolamenti, ovviamente, e le dosi di farmaci somministrate. Ecco, i farmaci, un fattore a cui, parlando di itticoltura e pesca, si pensa poco o niente, quando poi in effetti determinano una questione che non allarma ma esiste. Si tratta di quella riferita non tanto ai medicinali destinati ai pesci allevati ma a quelli che finiscono dentro tutto il pescato per assorbimento dei principi attivi di farmaci di consumo umano riversati negli ecosistemi marini.

Nel 2010 sono stati misurati in mare più di 160 principi attivi e 300 composti di diverse classi terapeutiche. Nel pesce si trovano tracce dei nostri antibiotici, antiinfiammatori, antiipertensivi, antiepilettici e una quota crescente di antidepressivi. Seppur legata a variabili fisico chimiche, la persistenza in mare dei farmaci, il cui uso non va certo a diminuire, li porta ad essere considerati come nuovi contaminanti emergenti. Ne abbiamo parlato con il prof. Francesco Regoli dell’Università Politecnica delle Marche, per la quale è Direttore del Dipartimento di Scienze della Vita e dell’Ambiente (DiSVA), ecotossicologo ed esperto di contaminazione ambientale, dragaggi e attività offshore, valutazione del rischio ecologico, inquinanti emergenti, farmaci e microplastiche.

L’uso di farmaci in Italia in venti anni (2002/22) è cresciuto di 6 punti percentuali, quello degli psicofarmaci dal 2017 aumenta stabilmente del 2% l’anno: colpisce che il male di vivere umano abbia riflessi anche sull’ambiente marino già provato da molte altre nostre attività inquinanti.
Eppure è così, ma siamo solo all’inizio della conoscenza di questo problema. I farmaci non sono generalmente percepiti come inquinanti, a differenza ad esempio della plastica o dei pesticidi. È bene comunque precisare che essi rappresentano prima di tutto un aiuto indispensabile che ha permesso di sconfiggere numerose malattie, ha migliorato e allungato la nostra aspettativa di vita. C’è però l’idea diffusa che un farmaco una volta assunto sparisca miracolosamente nel nostro organismo dopo aver fatto effetto. Difficilmente si considera che buona parte dei farmaci assunti non viene metabolizzata e, anche quando sono trasformati in metaboliti, sono comunque eliminati e tramite le acque reflue arrivano agli impianti di depurazione. Quel che succede qui è che i sistemi di trattamento non sono spesso efficaci nel trattenere i farmaci che vengono così rilasciati nell’ambiente.

Quando si è cominciato a monitorare la presenza di questi inquinanti con analisi mirate e sistematiche?
Negli Stati Uniti la misurazione dei nuovi inquinanti di sintesi è cominciata negli Anni Sessanta, sulla scorta della sensibilizzazione ambientalista che ha preso avvio con la pubblicazione del libro di Rachel Carson, Silent Spring, sull’uso del Ddt e fitofarmaci, e dei loro danni silenziosi all’ambiente. Sostanze ritenute fino a quel momento innocue sono state dimostrate responsabili di gravi danni agli ecosistemi, determinando ad esempio il declino di molte popolazioni di uccelli marini (che deponevano uova fragili a causa di un enzima inibito da queste sostanze), la carenza di alligatori di sesso maschile in Florida (per disfunzioni ormonali e limitati livelli di testosterone), per citare solo due esempi. L’immissione nelle acque di questi inquinanti persistenti, che cioè non si degradano, ha determinato il lento accumulo di queste sostanze negli organismi ed il loro trasferimento lungo le reti trofiche, con effetti a lungo termine capaci di scompensare il metabolismo animale, compromettere i tempi di muta, la riproduzione e determinando femminilizzazioni o mascolinizzazioni. Sebbene da tempo banditi, l’utilizzo protratto per molti anni di alcuni pesticidi come appunto il Ddt, ha portato alla scomparsa di intere popolazioni di anfibi in Nord America, mentre altre sostanze chimiche di sintesi sono oggi responsabili del fenomeno dell’ermafroditismo negli orsi polari delle Svalbard. La difficoltà nel prevedere i danni causati dal rilascio nell’ambiente dei farmaci umani è legato anche dalla velocità con cui le formulazioni di questi composti cambiano da un anno all’altro, per cui quando si arriva a capire gli effetti, ad esempio, di un determinato antiinfiammatorio potrebbe essere tardi, perché magari quel principio non è più attuale ed è già stato sostituito da prodotti nuovi.

È più facile prevedere gli effetti dei metalli pesanti?
Sì, e paradossalmente anche quelli degli idrocarburi. Per fare un esempio, il mercurio assorbito da tonni e salmoni è presente in natura da sempre, fa parte della crosta terrestre, pre esiste alla rivoluzione industriale; non lo abbiamo creato noi, anche se con le nostre condotte ne abbiamo amplificato l’uso e la mobilità ambientale, imparandone a nostre spese gli effetti tossicologici dopo l’avvelenamento di Minamata. I farmaci che teniamo nel mobiletto del bagno non sono invece quelli che avevano i nostri nonni, ma neanche quelli sintetizzati dieci anni fa. Al giorno d’oggi non c’è ancora un allarme tossicologico per i farmaci nell’ambiente, ma questo non esclude che ci sia un problema da monitorare attentamente. Nel 90% delle cozze campionate lungo le coste dell’Adriatico e del Tirreno si rilevano tracce di un antiepilettico che nel mare non deve esserci, così come è innaturale la presenza di altre tipologie di farmaci presenti nei tessuti degli organismi marini.

Il surriscaldamento dell’acqua aumenta il problema?
Il cambiamento di fattori climatici come riscaldamento e acidificazione possono certamente incidere sul loro accumulo ed effetti. Inoltre, anche se sappiamo che nell’uomo alcune categorie di farmaci non devono essere assunte contemporaneamente, questo non si verifica negli organismi acquatici che sono esposti a miscele complesse.

La presenza dei farmaci e degli psicofarmaci nei pesci indica che è un problema che riguarda solo il mare? Può avere conseguenze per l’uomo?
I farmaci che riversiamo in mare derivano da un loro utilizzo a terra e, oltre che nelle acque, possono finire anche nei suoli. Un esempio è quanto accaduto a colleghi ricercatori olandesi, che hanno evidenziato che il principio attivo di un farmaco antidiabetico, non rimosso da un impianto di trattamento, finiva in grandi concentrazioni nei fanghi di depurazione successivamente utilizzati in agricoltura: come conseguenza, le piante a cui quel fango veniva destinato crescevano in modo abnorme.

C’è una soluzione?
Non allarmarsi ma conoscere e collaborare, analizzare la questione da punti di vista diversi, senza mettere in contrasto la protezione dell’ambiente con lo sviluppo economico e tecnologico delle comunità . Non si può certo fare a meno dei farmaci, anche in considerazione del fatto che la popolazione invecchia. I problemi complessi si risolvono insieme, coinvolgendo professionalità diverse, e la conoscenza e la sensibilizzazione sono alla base di tutto. Oltre a intervenire sugli impianti di depurazione, sarebbe già importante migliorare lo smaltimento domestico e la raccolta di farmaci scaduti, mettere a punto la possibilità di riciclarli, coinvolgere sempre di più le aziende farmaceutiche nella progettazione di farmaci più sostenibili, ed orientare così la scelta di un farmaco nei consumatori facendo pesare l’aspetto del suo destino ambientale: a parità di antiinfiammatori disponibili, tutti sceglieremmo quello con un impatto più basso sull’ambiente.