La debolezza della Spd al seguito di Merkel
La gestazione dell’ennesima Grande coalizione a Berlino è segnata da un paradosso che illumina assai chiaramente lo stato in cui versa la democrazia rappresentativa in Europa. Come sarebbe possibile che […]
La gestazione dell’ennesima Grande coalizione a Berlino è segnata da un paradosso che illumina assai chiaramente lo stato in cui versa la democrazia rappresentativa in Europa. Come sarebbe possibile che […]
La gestazione dell’ennesima Grande coalizione a Berlino è segnata da un paradosso che illumina assai chiaramente lo stato in cui versa la democrazia rappresentativa in Europa.
Come sarebbe possibile che una estenuante maratona negoziale venga rimessa in discussione dal referendum nella Spd?
Come immaginare che pagine e pagine di programma, una complicata (e combattuta) distribuzione di cariche e ministeri, dichiarazioni e promesse rivolte all’Europa e al mondo possano essere rimesse in questione dal pronunciamento dei circa 460.000 iscritti alla Spd (il più diviso dei tre partiti che daranno vita alla coalizione) cancellando in un sol colpo questo enorme lavoro di tessitura politica?
Evidentemente una simile eventualità non viene messa in conto, altrimenti il referendum avrebbe dovuto precedere, se non le linee guida e gli orientamenti politici della futura alleanza di governo, almeno il completamento del percorso negoziale e la distribuzione delle poltrone.
Invece, il «non ci sono alternative» discende, di gradino in gradino, dai vertici dei partiti fino all’ultimo dei loro militanti. E una bocciatura della Grande coalizione da parte della base socialdemocratica assume così, nella narrazione dominante, i tratti dell’apocalisse.
Già qualche commentatore lamenta che il destino dell’intero paese venga rimesso nelle mani di qualche centinaio di migliaia di iscritti alla Spd. Tanto per chiarire quale sia l’idea di partito e di politica coltivata dall’oligarchia neoliberista.
Ad ogni buon conto, di una consultazione della base i partiti tedeschi non possono ancora fare a meno.
E così tutti gli sforzi sono rivolti a convincere quella socialdemocratica, l’unica a costituire davvero un problema, che il governo uscito dalla maratona negoziale reca fortemente il segno e lo spirito della socialdemocrazia che essi rivendicano.
L’elemento simbolico più importante a questo scopo è la cessione del ministero delle finanze, già tetro regno di Wolfgang Schäuble, al sindaco Spd di Amburgo Olaf Scholze.
Già, ma il segno e lo spirito di quale socialdemocrazia? Quella che gli elettori hanno punito nelle urne di settembre bocciando l’esperienza della Grande coalizione e che gli ultimi sondaggi accreditano di un disastroso 17%? Olaf Scholz, uomo d’ordine, è già una parziale risposta: tra i principali architetti dell’ odiata Agenda 2010 (quella delle riforme neoliberiste del welfare e del mercato del lavoro), la sua designazione alle finanze ha suscitato l’entusiasmo della confindustria di Amburgo e di buona parte dell’imprenditoria della Germania settentrionale.
Il malumore che serpeggia nelle fila della Cdu per la perdita di questo potente ministero, nella sostanza è assai poco motivato.
Quando Angela Merkel ha astutamente deciso di trattare il bastonato partito di Martin Schulz non come un partner minore (relativamente alla sua consistenza elettorale) ma come un interlocutore alla pari, lo ha fatto proprio in conseguenza dello stato di debolezza in cui esso versava.
Così ha potuto avallare il simulacro di un governo a forte colorazione socialdemocratica senza rischiare nulla. Poiché si tratta di una Spd prodotta dalla sua politica e non da una propria forza sociale (in continuo declino) quella che si accinge ad entrare nella Grosse Koalition.
E poi, in fondo, qualche elemento di sostanza c’è. Scholz si troverà tra le mani gli straordinari risultati dell’accumulazione tedesca, circostanza che gli consentirebbe un buon margine di manovra in materia di spesa sociale all’interno e di investimento economico-politico in Europa.
Su quest’ultimo conta fortemente Martin Schulz, destinato agli Esteri, la cui identità politica coincide ormai quasi esclusivamente con l’integrazione europea che ha nel suo orizzonte più immediato (condiviso con la Francia) il completamento dell’unione bancaria e la creazione del Fondo monetario europeo.
Ma è velleitario sperare che un impegno europeo della Germania, sia pure non troppo ossessionata dall’interesse nazionale, coincida con una riscrittura delle regole che permetta ai partner più svantaggiati di uscire dalla gabbia dell’austerità e delle “riforme” neoliberiste.
Il quarto governo Merkel sarà ancora tutto suo e, come la cancelliera ha scritto sulla sua bandiera: «Voi mi conoscete!»
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