La Costituzione non prevede espressamente il diritto all’aborto, dunque il potere di regolarlo spetta al popolo, tramite i suoi rappresentanti nei singoli Stati dell’Unione. Questo è l’argomento principale che ha permesso alla Corte Suprema di ribaltare il suo precedente del 1973 (Roe vs Wade). Una sentenza quest’ultima – oggi ritenuta dalla Corte – profondamente sbagliata, «in rotta di collisione con la Costituzione dal giorno in cui è stata decisa», espressione di un «potere giudiziario grezzo».

Poche e aspre parole per dichiarare la fine di un’epoca: l’abbandono delle interpretazioni evolutive della Costituzione (nelle diverse forme che può assumere la judicial interpretation) e l’affermarsi delle peggiori prospettive «testualiste». Ben oltre le tesi – conservatrici anch’esse, ma più sofisticate – che vanno alla ricerca dell’intento originario dei Padri fondatori. Quest’ultime non giungono a negare la necessità di coniugare tradizione ed evoluzione sociale. Almeno non in modo così assertivo.

SUPERATA è anche l’idea cara ai conservatori – e di cui fu insuperato interprete Antonin Scalia – di circoscrivere l’attività creatrice dei giudici tenendosi alla larga dal confronto politico, volendo contrastare l’immagine dei giudici «arbitri morali del mondo». Con questa decisione la Corte Suprema entra direttamente nel conflitto politico per sottrarre alla Costituzione molta parte della sua capacità di tutela, restituendo all’arbitrio della politica le garanzie riservate ai diritti.

Prospettiva tanto più temibile se si pone mente a quel che già è avvenuto. Due giorni prima della decisione sull’aborto, la stessa Corte ha esteso il diritto ad armarsi dei cittadini statunitensi, perché questo sì che è previsto nel secondo emendamento, sicché non può essere limitato dalla politica: incostituzionale è stata ritenuta una legge dello Stato di New York che regolava l’utilizzazione delle armi fuori dalla propria abitazione privata. Si noti che tale legge non giungeva ad impedire la possibilità di portare armi in giro per la città, si limitava a porre alcuni limiti. Dunque, secondo la Corte Suprema, a differenza dell’aborto che risulta privo di protezione costituzionale, le armi sono un vero diritto sottratto alla decisione politica, da salvaguardare in modo assoluto.

Deve anche essere compresa la portata della decisione. Infatti, la stessa motivazione che sostiene la sentenza sull’aborto (ciò che non è espressamente scritto in Costituzione può essere rimesso al legislatore dei diversi Stati) può essere fatta valere per pressoché tutti i diritti sociali e civili. Qui si registra un’ipocrisia nella sentenza che tiene a precisare che la decisione assunta «riguarda il diritto costituzionale all’aborto e nessun altro diritto».

Un’autolimitazione che viene correttamente smentita non solo nella opinione dissenziente firmata dai tre giudici che si sono opposti, ma persino nella opinione concorrente del giudice ultraconservatore Clarence Thomas, che ha voluto rilevare come neppure altri diritti – dai matrimoni omosessuali alla contraccezione – possono venir più garantiti, rimessi anch’essi alla volontà degli Stati. In realtà è ancora peggio, l’elenco dei diritti non espressamente tutelati è ben più lungo. Il rischio di una riduzione della Costituzione statunitense ad un totem a difesa della conservazione è dietro l’angolo.

È OPPORTUNO richiamare un ulteriore passaggio per riuscire a percepire i presupposti culturali e gli effetti di lungo periodo che la decisione sull’aborto tende a produrre. La Corte Suprema rileva che in fondo l’aborto sino all’ultima parte del XX secolo «è sempre stato stabilmente considerato un crimine di diritto comune in ogni singolo Stato». Rafforzando questa considerazione con una sorprendente affermazione per cercare di dimostrare la radicale erroneità della precedente sentenza Roe: «Né esisteva alcun trattato accademico di cui siamo a conoscenza» («Nor had any scholarly treatise of which we are aware»).

Lasciando per il momento da parte l’analisi storica e la ricostruzione fornita dalla Corte, quel che importa rilevare ora è l’attacco a tutti i «nuovi diritti», il tentativo di ancorare la Costituzione al suo tempo, alla società di fine Settecento, baluardo della conservazione più estrema. Un ribaltamento di quel che invece sono le Costituzioni moderne: leggi «supreme» che si impongono al legislatore futuro perché in grado di riportare i nuovi diritti entro l’alveo dei suoi principi «eterni».

Così, tanto per essere diretti e banali, la Costituzione statunitense (ma anche quella italiana) non prevede alcun diritto esplicito nel campo dell’informatica, dei social media o del commercio globale. Si deve arrestare di fronte a questo? Se si volesse cominciare a dubitare della forza propulsiva e della capacità espansiva della Costituzione si finirebbe per sottrarre al dominio del diritto costituzionale gran parte del vivere civile. Di più, si riuscirebbe a porre la Costituzione fuori dalla storia, impermeabile alle lotte sociali e al progresso civile, da usare come strumento di reazione per fermare le conquiste di civiltà di un popolo.

La decisione Dobbs vs Jackson Women’s Health organization con cui la Corte Suprema ha sottratto alla Costituzione e «restituito» agli Stati il diritto di aborto fa tornare indietro la storia dei diritti civili di cinquanta anni, rimettendo in discussione duecento anni del costituzionalismo moderno. Una sola è la via per evitare di tornare al medioevo del diritto: riprendere la lotta per i diritti e riaffermare il valore di legge superiore della Costituzione.