Abbiamo cambiato repubblica, rinnovato i partiti, sostituito la classe politica. Sono apparse formazioni che hanno inscritto la moralità pubblica sulle loro insegne. Si è messo mano alle istituzioni. E stata promossa una competizione politica bipolare, insieme all’involuzione monocratica dell’azione di governo: ufficiale in comuni e regioni, ufficiosa sul piano nazionale, ma bastevole a zittire il parlamento. La cui residua vitalità è ormai affidata alle dispute interne alle maggioranze di turno. Si sono inventate istituzioni ad hoc, come l’Anac. A furor di popolo si è ridotto il numero dei parlamentari. Sono state inasprite le pene. Ma la moralità pubblica si è vieppiù degradata.

Qualcosa di nuovo però succede sempre. Il caso pugliese sembra volgare voto di scambio. Quello genovese ha tratti originali. La quantità si fa qualità: lo chiamano crony capitalism, quando l’intreccio tra capitalismo, politica e governo diviene intimo e sopprime la concorrenza. Pressato dal declino della manifattura, al capitalismo non sono bastate finanziarizzazione, privatizzazioni e deregulation. Ha messo a reddito la politica democratica, che, per parte sua, ha subito una mutazione radicale. I media, per lo più privati, hanno espropriato i partiti dell’azione d’informazione e propaganda e li hanno ridotti a cordate di potere. Riservate ai ceti abbienti. Si è soprattutto indebolita l’autorità pubblica, ridisegnando l’andamento di quelle che un grande sociologo come Norbert Elias chiamava «lotte per il monopolio».

Ve ne sono sempre e ovunque. Per costituire monopoli politici, economici, culturali. Spicca la lotta tra capitalisti e attori politici. Le burocrazie pubbliche tradizionali e il regime rappresentativo-democratico, fondato sul pluralismo dei partiti, erano congegnati in modo da ostacolare sia la costituzione di monopoli politici stabili, sia le ambizioni monopolistiche dei potentati economici. Non erano congegni perfetti, ma agivano da freno. Negli ultimi decenni le burocrazie pubbliche sono state consapevolmente debilitate, mentre il ridisegno dualistico della competizione politico-elettorale ha condotto alla costituzione ciclica, e per lassi di tempo non brevi, di monopoli politici in capo all’esecutivo e al suo leader.

Chi governa se ne infischia delle opposizioni e vuole protrarre a ogni costo il suo provvisorio monopolio, magari associandosi e sottomettendosi ai potentati economici. Che, se del caso, corteggiano pure le opposizioni. Di qui il crony capitalism: altro che concorrenza, le imprese pretendono norme accomodanti, investimenti pubblici, benefici fiscali e quant’altro. Il personale politico ne ricava pregiate opportunità privata di arricchimento.
Ben corrisponde a questo schema il racconto dei casi genovesi. Regione e Autorità portuale, un’impresa della grande distribuzione e una multi-utility, figliata dalla privatizzazione di alcune venerabili municipalizzate dell’energia, una colossale opera pubblica, un clan mafioso, qualche politico in carriera. Senza l’ingombro della politica estera, della difesa, dell’ordine pubblico, della giustizia, il governo è totalmente funzionalizzato agli affari, offrendo fra l’altro un anticipo del regionalismo differenziato in arrivo.

Che possibilità vi sono allora di contrastare questa deriva? La corruzione è malattia universale, pur se non sempre ugualmente grave, vi sono solo due leve. Gli accorgimenti istituzionali e la cultura politica e civile. I primi non sono valsi a molto. Né servirebbe il ripristino del finanziamento pubblico dei partiti, di recente cancellato per stolta demagogia. Suona naturalmente beffarda la terapia di Meloni e del suo governo: attuando un vecchio disegno della destra, si cancella il confine tra legalità e illegalità, e s’impedisce di perseguire le trasgressioni. Una sforbiciata alle intercettazioni, riduzioni ulteriori dei mezzi per chi indaga, qualche severo vincolo aggiuntivo alla libertà d’informazione, ricondurre il pubblico ministero sotto l’autorità del guardasigilli. Per intanto, già si è abrogato il reato di abuso d’ufficio.

In realtà, le istituzioni non saranno mai sufficienti finché non si riuscirà a manovrare l’altra leva: cioè curare il deficit di etica pubblica e risanare costume immaginario collettivo. Chi può tuttavia svolgere l’ingente azione educativa e persuasiva che si richiede? La scuola? Il fantasma dei partiti? I media, vecchi e nuovi? La volenterosa società civile? E più facile, per ora, suggerire cosa serve. Il capitalismo neoliberale a suo tempo si è imposto tramite una rivoluzione culturale che ha sollevato un’ondata travolgente di moralismo antipolitico e antistatale e ha elevato a valori supremi concorrenza, profitto, merito, individualismo senza freni. Gli effetti di questo intreccio li abbiamo sotto gli occhi. Di sicuro non ha frenato la corruzione. Probabilmente l’ha aggravata parecchio. Serve allora una rivoluzione culturale all’incontrario, che risvegli la critica anticapitalistica e proponga tutt’altri valori.

Non si è ancora scoperto come farne a meno, ma il capitalismo non è una benedizione del cielo. E perciò doveroso denunciarne e contrastarne gli inconvenienti. A maggior ragione quelli della sua versione crony, che è onnivora e rischiosissima. La grande crisi finanziaria è stata un’opportunità per ripensarci. Così come la pandemia. Sono fallite entrambe. Sarà la crisi climatica che ci sovrasta a creare le condizioni di un radicale rinnovamento dei modi di pensare e delle scale di valori, necessario per tante ragioni, anche per rimediare alla corruzione?