Una selezione in contrappunto, in discontinuità quella della Settimana della Critica, e non da quest’anno: rassegna di visioni, di linguaggi in fiammante commistione, spesso legati all’universo giovanile (del resto si tratta di opere prime), tra dimensione icastica, sperimentazione, affioramento sinuoso di ecosistemi musicali, letterari. Se negli anni scorsi erano film come Les Garcons Sauvages di Bertand Mandico (cortocircuito di materiali sciolti, colanti: cinematografici, letterari, musicali) o El Pincipe diretto da Sebastian Munoz, tutto scandito da una viscosità corporale, sanguigna come rischiarata, diluita dal controcanto del melò, oppure Los Nadie di Sebastian Mesa dalla vitalità straripante e, ancora una volta, musicale, rock; quest’anno i termini estremi della discontinuità entro cui si sono svolte le visioni, composite, stratificate, e sempre geograficamente diversificate, sono stati 50 (O dos ballenas se encuentran en la playa) del messicano Jorge Cuchi e Hayaletler (Ghosts) della regista turca Azra Deniz Okyay, vincitrice della competizione.

INFATTI alla testimonianza contrita, partecipe di un dolore senza rimedio, quello dei due protagonisti di 50, che si votano alla morte nonostante l’insorgere dell’amore, risponde la celebrazione della vita, ostinata, trafelata, che ne fa la regista turca, ponendosi sulle strade di Istanbul nella giornata del 26 ottobre 2020. La città è in preda a una luce autunnale, un sole come in esalazione che si intravede all’orizzonte, sopra il soffocamento di case, spiazzi pietrosi, intercapedini vegetali aperti all’improvviso nel mezzo della città: tutto un caos, un chiasso di voci e luci, un tramestio d’uomini, d’esuli cadenzato dal montaggio non lineare del film, che allora è un andirivieni cronologico, la diramazione di prospettive in cui gli obiettivi dei telefoni hanno un ruolo topico divenendo gli spioncini delle delazioni alla polizia o d’altra parte la testimonianza filmata dei soprusi perpetrati dalle autorità.

È uno stato delle cose non solo descritto dal racconto intrinseco alle immagini ma anche mimato, alluso, attuato dalla forma cinematografica, la cui anima è il montaggio e il cui corpo è rappresentato dalla macchina a mano che segue i personaggi a distanza ravvicinata, ne coglie gli spasimi, le illusioni, ne mostra la lotta, la resistenza dentro un sistema basculante tra maschilismo, stato di polizia, violenza e, all’opposto, sussistenza e perorazione della cultura, dell’integrazione sessuale, rivendicazioni femministe, sedimentazione di una libertà personale, femminile che è alla fine libertà di ballare.

ANCORA IL BALLO, come in molti film cruciali di questi ultimi tempi, da Capri Revolution a Ema: la pratica di aprire varchi, crearsi spazi di persistenza dialettica dentro le pastoie del contemporaneo attraverso il movimento coreografico, la scena, il cinema. E Okyay sa filmarlo benissimo, orchestrarlo, dargli il ritmo perfetto, forte della sua esperienza nel videoclip.

Se il montaggio, in Ghosts, è lo strumento atto a mimare il caos, la ripresa, sempre mossa, nervosa, mostra minuziosamente la claustrofobia di questa dimensione: muri, case, strade addossati l’uno all’altro; la polvere, i calcinacci, i fuochi che infuriano all’orizzonte sono la piattaforma semantica su cui si dipanano le vicende dei personaggi legati tra loro da questi vettori contrari, da queste spinte di segno opposto. Da una parte la necessità di una definitiva emancipazione femminile (a fronte di un’identità, quella delle donne, mal tollerata da un paese così vicino, proprio geograficamente, alle democrazie occidentali) o in generale la richiesta spasmodica di giustizia; e dalla parte opposta la speculazione edilizia della «nuova» Turchia, la corruzione, il malcelato maschilismo.

UN UNIVERSO che resta aperto, non risolto da un finale; resta in un equilibrio precario, involatisi i protagonisti, ma su cui si sentono i passi leggeri di Didem, come una coriacea, errabonda Jennifer Beals, che si ritrova nel buio delle vie e dei vecchi palazzi illuminati dallo schermo del telefono, a celebrare la vita nonostante tutto, la libertà del movimento, della scena; a ballare da sola sulle note di quel capolavoro che è N.E.M. dei Les Aves.