Alcuni processi, qualche condanna, molte omissioni e una travolgente voglia di rimozione. Il dopo G8 per le istituzioni repubblicane è stato un calvario. Costituzione e diritti umani, nell’estate di vent’anni fa, furono accantonati per fare spazio a un’oscena strategia della tortura. Giustizia – possiamo ben dirlo – non è stata fatta.
E dire che i due principali processi contro le forze di polizia – per i casi Diaz e Bolzaneto – si sono chiusi con sentenze di condanna passate in giudicato. Ma sono state sentenze così deficitarie, con pene così lievi, mitigate oltretutto da prescrizione e indulto, che l’Italia è stata condannata dalla Corte europea per i diritti umani con parole che avrebbero dovuto scuotere opinione pubblica e commentatori, classe politica e vertici istituzionali.

La Corte ha scritto fra molte altre cose che la polizia italiana ha «ostacolato impunemente l’azione della magistratura», che l’ordinamento italiano ha un deficit strutturale nel punire ma anche nel prevenire gli abusi di potere, ha notato con disappunto che nonostante la gravità dei fatti nessun agente o funzionario ha fatto un solo giorno di galera (salvo i brevi periodi di arresti domiciliari scontati da alcuni condannati nel processo Diaz, non ammessi alle misure alternative).
L’impegno, la lealtà, l’indipendenza di un pugno di pm e di giudici, rimasti indifferenti alle pressioni venute dal Palazzo e capaci di condurre a termine i due complicati processi, non sono bastati a risparmiare all’Italia gli sferzanti giudizi dei togati di Strasburgo. La democrazia italiana è così uscita umiliata dal G8 e ancor più dal post G8.

Se è vero, come è vero, che le garanzie democratiche furono sospese nel luglio genovese, dobbiamo chiederci se quegli abusi siano stati ripudiati, se la credibilità democratica delle nostre polizie sia stata recuperata. La risposta è no. La reazione delle istituzioni rappresentative alle parole dei giudici di Strasburgo è stata il silenzio, un imbarazzato e imbarazzante silenzio. Un silenzio però non casuale, anzi la premessa logica della rimozione in atto. Nel Palazzo non si parla e non si vuole che si parli dell’eredità lasciata dal G8: una prova generale – mai davvero rinnegata – di sovversione legalizzata dei princìpi costituzionali.
Nemmeno la magistratura, che pure ha ottenuto risultati importanti nei processi Diaz e Bolzaneto, può dirsi assolta. L’omicidio di Carlo Giuliani è una spina che non smette di farci soffrire e l’archiviazione decisa a suo tempo dal gip continua a non convincere. Le conoscenze acquisite durante il processo ai manifestanti e grazie al lavoro della famiglia Giuliani dimostrano che un dibattimento sarebbe stato a dir poco opportuno; da esso, con ogni probabilità, sarebbe disceso un altro (doloroso) procedimento, stavolta per vilipendio del cadavere di Carlo, colpito in fronte con un sasso da una mano rimasta ignota.

La magistratura ha peccato poi per omissione e per eccesso di zelo. Mancano all’appello le inchieste per le violenze sui detenuti nel Forte San Giuliano, quartiere generale dei carabinieri, e quella per la carica «illegittima e ingiustificata», parole del tribunale, al corteo delle tute bianche di venerdì 20 luglio. Mancano le inchieste sugli abusi compiuti per strada, sugli arresti arbitrari, sugli innumerevoli falsi nei verbali, sui fermi avvenuti negli ospedali. L’eccesso di zelo è ben espresso da un’evidenza paradossale: le condanne più pesanti e l’ingresso in carcere sono toccati non già ai responsabili di violenze, falsi e torture, ma a un gruppo di manifestanti colpiti dalla mano della giustizia armata di una scure: una figura di reato – devastazione e saccheggio – che prevede pene abnormi, da otto a 15 anni.

Stiamo parlando di imputati che non hanno compiuto alcuna violenza contro le persone. E nessuno, nonostante l’evidente sproporzione fra entità del crimine e pena prevista, ha pensato di cancellare questa norma, residuo dell’epoca fascista, dal codice penale.
La giustizia d’altronde non si afferma solo nei tribunali. Dev’essere pretesa e vissuta dall’insieme delle istituzioni. I vertici di polizia hanno però rifiutato di compiere un’autocritica e anche di chiedere scusa alle vittime degli abusi, alla cittadinanza, agli stessi lavoratori delle polizie. Hanno accettato che l’espressione «polizia di Genova» passi alla storia come una delle opzioni in campo quando si parla delle scelte da compiere in materia di ordine pubblico. Hanno scelto, i vertici di polizia, d’essere strumento degli interessi politici del momento anziché d’essere garanti, con la propria autonomia, del disegno democratico indicato dalla costituzione. Il post G8 è stata una caporetto per l’antica idea di una polizia democratica al servizio dei cittadini.

I silenzi e le omissioni di parlamenti e governi di ogni colore hanno fatto il resto, trasmettendo un messaggio di cinismo e complicità. Il disastro di Genova poteva essere un incidente, è diventato un precedente. Genova 2001 è l’inquietudine che ci porteremo dentro ancora a lungo.