Le ultime elezioni politiche hanno segnato una cocente sconfitta per la sinistra italiana, divisa e incapace di intercettare il malessere che cova, non solo tra gli strati sociali più marginali, ma anche in pezzi di ceto medio impoverito. Eppure, le differenze tra destra e sinistra ci sono. Basta guardare ai programmi.

Sul Reddito di Cittadinanza la linea è già chiara. Se non la sua eliminazione, si punta al ritorno della distinzione ottocentesca tra poveri meritevoli a cui è riservata l’assistenza e poveri non meritevoli, ovvero abili al lavoro, nei confronti dei quali c’è solo il lavoro, qualunque esso sia, senza però alcuna forma di integrazione e trasferimento contro la trappola della povertà.

C’è da scommettere invece che ci saranno gli incentivi alle assunzioni, a patto però di avere lo spazio fiscale sufficiente. E qui arrivano i problemi. Perché non solo si tratta di trovare le risorse per gli sgravi ma anche per le promesse di riduzione delle tasse. Senza considerare la flat tax della Lega (illusoria, oltre che sbagliata), anche nelle versioni più edulcorate richiedono risorse che certo non potranno venire dal Reddito di Cittadinanza.

È facile piuttosto prevedere che i tagli riguarderanno la sanità e la scuola in parallelo a privatizzazioni mascherate da spending review. Il Movimento 5 stelle ha dato risposta a un bisogno di protezione che attraversa la società, nelle fasce più marginali e nei territori in cui la crisi è da anni una condizione strutturale. Restano aperti e ancora in cerca di una adeguata offerta politica i grandi temi del lavoro e del modello di sviluppo.

Viviamo oggi in società al centro di radicali trasformazioni (digitalizzazione, transizione green per citarne alcune) nei confronti delle quali le vecchie ricette del neoliberismo (deregulation, austerity e tagli delle tasse ai ricchi) non solo non funzionano più come si è visto di recente in Gran Bretagna con il taglio delle tasse ai ricchi annunciato e poi subito ritirato per il panico scatenato sui mercati. Sono dannose per la stessa economia.

Il mercato liberato dalla presenza ingombrante dello Stato ha finito in realtà per limitare la crescita, acuendo le tendenze alla stagnazione secolare come l’hanno definita gli economisti, ovvero un periodo prolungato di riprese deboli e depressioni che si alimentano a vicenda. Mai come in questo momento le questioni legate alla sostenibilità, sociale, ambientale, economica, sono strettamente legate ai problemi che impattano sul modello di sviluppo. Ma quale sviluppo? Quale lavoro? Il lavoro purchessia come è nelle ricette tatcheriane del workfare? O il lavoro al centro di un modello di sviluppo, non solo sostenibile sul piano ambientale, ma anche su quello sociale?

Per la sinistra italiana, attesa a un profondo ripensamento, la risposta dovrebbe essere facile. Ma così non è se si guarda alle ricette che da alcuni vengono riproposte, pur di fronte ai loro fallimenti. L’oscuramento della politica industriale, dello Stato (da affamare nella vulgata del neoliberismo dominante per anni), della domanda interna come motore di crescita e più in generale l’idea che il lavoro vada tutt’al più incentivato date le richieste del mercato (qualunque esse siano) sono i lasciti di una fase lunga da superare definitamente.

Come scriveva Karl Polanyi ne La Grande Trasformazione, le tensioni scaturite dal mercato auto-regolato portano sempre a reazioni sociali e alla formazione di contro-movimenti. Questi possono rafforzare l’emancipazione e la solidarietà, come è stato per le prime forme di mutuo-aiuto sindacale e per il decollo dei moderni welfare state. Ma possono portare anche a chiusure xenofobe e nazionaliste che difendono la supremazia di alcuni gruppi contro altri come è stato per l’ascesa dei fascismi in Europa e oggi con i rigurgiti populisti in molte parti d’Europa.

Prima ancora delle candidature o dei nomi cui affidare le sorti dei partiti, dovrebbe essere questa la cornice della discussione che attende la sinistra italiana, da un lato rimettendo al centro dell’agenda politica gli interessi del lavoro, dall’altro allargando il campo delle alleanze a chi nei territori sperimenta nuove forme di auto-organizzazione per creare lavoro, costruisce percorsi di inclusione e contrasto alle disuguaglianze, promuove il recupero industriale (come è nell’esperienza delle fabbriche recuperate) e una transizione ecologica sostenibile socialmente, in grado cioè di guidare gli impatti non solo sull’ambiente ma anche sul lavoro che ci saranno e andranno gestiti.

Sono questi gli anticorpi da promuovere. L’alternativa è che siano le destre a occuparsene, ma in direzione o del conservatorismo compassionevole o peggio della reazione dei penultimi contro gli ultimi.