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La battaglia sulla Costituzione e la ritrovata dignità della politica

L’esito referendario ci ha dato la soddisfazione di un ritorno alla dignità della politica. I commenti di queste ore si riferiscono alla risposta data dal popolo italiano alla prepotenza di […]

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 14 dicembre 2016

L’esito referendario ci ha dato la soddisfazione di un ritorno alla dignità della politica.

I commenti di queste ore si riferiscono alla risposta data dal popolo italiano alla prepotenza di chi – non avendone alcuna legittimità per via della nota sentenza 1/2014 della Corte Costituzionale – aveva prodotto ed approvato una riforma della Carta, con sprezzo del diritto costituzionale e strage della lingua italiana.

Un voto che aggiunge alla delegittimazione istituzionale la bocciatura politica e che richiama tutti, a cominciare dal Presidente della Repubblica, ad avere rispetto per le regole costituzionali ed il contegno dovuto per i diritti fondamentali dei cittadini.

Mi soffermo solo su due dati, significativi quanti altri mai: le altissime percentuali di NO provenienti dal Sud (circa il 70%) – e dalle giovani generazioni (oltre il 67% di NO tra i 18/35 anni).

Il primo fa emergere con chiarezza che gli italiani, tutti, hanno percepito con chiarezza che la riforma costituzionale, dettata da JpMorgan, fatta propria dalla casta dei Boschi e dei Carrai e presentata al Parlamento dalla manovalanza dei peones nominati avrebbe condotto il Paese su approdi autoritari.

I meridionali, in particolare, hanno avuto un sussulto aggiuntivo, provocato da una proposta di riforma che, nelle loro regioni, aveva l’odore di frittura di pesce rancido e di maneggi sporchi intorno al grande business dei servizi sanitari, quindi sulla pelle dei cittadini.

Quanto ai giovani il segnale è di straordinaria valenza: proprio le generazioni alle quali i «luogocomunisti» da talk show invocavano ed auspicavano il «cambiamento» con il trionfo tronfio dei sedicenti «innovatori» hanno dimostrato che la speranza in un futuro migliore non è riposta in chi vuole comandare ma in chi vuole governare.

Due cose ben distinte: la prima è il paradigma del politico debole che è forte solo se ha le truppe ubbidienti per convenienza, e che per questo contamina con la sua debolezza tutto il Paese. La seconda – il governo – si basa sul consenso e sulle convinzioni e può essere esercitato solo da chi ha la forza attrattiva del pensiero e delle idee generate dal dialogo, dal pluralismo, dall’incontro tra diversi. Qui sta la vera governabilità che produce i cambiamenti e le riforme stabili e durature.

Bene. Sventato il tentativo di regime, diamoci da fare; si sono risvegliate molte coscienze sopite sul comodo cuscino dell’indifferenza.

I partiti possono rigenerarsi ed incontrarsi, ad esempio, con il mondo dei comitati del no, un contesto che ricorda in alcuni suoi tratti laici e libertari, il partito d’azione del secondo dopoguerra, che ha dato linfa e uomini e donne straordinarie alla politica ed alle istituzioni.

Dunque, all’opera, a cominciare dalla legge elettorale, unica fonte della selezione e della qualità della classe dirigente.

Qualsiasi formula si adotterà dovrà far tornare quel forte legame tra eletto ed elettore, interrotto brutalmente dal criterio delle nomine. Da qui potremmo riprendere le fila del duro ma affascinante lavoro della politica.

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