Un respiro di sollievo nelle prime ore della notte tra lunedì e martedì scorsi: all’1.44 ecco la notizia sognata. Assange è libero. A breve – il 9 e 10 luglio – l’Alta Corte del Regno unito avrebbe preso una decisione definitiva. Ma qualche giorno prima, finalmente, le porte del carcere speciale di Belmarsh (chiamato la Guantanamo inglese) si sono aperte.

IL COLLEGIO di difesa ha strappato al dipartimento di giustizia statunitense la possibilità di patteggiare il primo capo di imputazione previsto dall’Espionage Act del 1917 (la cospirazione per ottenere notizie riservate). L’eventuale pena non sarà superiore, comunque, a quella già scontata. Ricordiamo che il giornalista australiano è nell’occhio del ciclone dal 2010 e segregato in un vero e proprio luogo di tortura dal 2009.

Bene ha fatto il gruppo forense che ha tutelato il nemico pubblico dei servizi segreti d’oltre oceano supportati dai buoni servigi della Svezia, dell’Ecuador da un certo punto in poi, della Gran Bretagna costola di Washington a patteggiare. Del resto, il rito accusatorio laggiù è portato alle estreme conseguenze: o si patteggia o si soccombe. Tertium non datur.

I processi non sono quelli che Hollywood ci regala nei legal thriller alla moda, magari con Harrison Fard o Al Pacino. O sei ricchissimo e ti puoi permettere cauzioni milionarie, o patteggi. Le ulteriori possibilità riguardano i disperati della terra, cui è riservata una cella invivibile le cui chiavi sono gettate nella spazzatura.

INSOMMA, Stella Moris, la moglie avvocata di Assange e lo stuolo di giuristi tra cui il notissimo Balthasar Garzon (quello delle mani pulite spagnole) che seguono un caso che farà storia sono riusciti a ridimensionare a uno i diciotto capi di accusa rovesciati sul fondatore di WikiLeaks.

Un risultato forse insperato è stato raggiunto, certamente da un eccellente stuolo di legali. Tuttavia, non si sarebbe arrivati a un simile risultato senza una tenacissima azione di associazioni, comitati FreeAssange, movimenti, nonché organizzazioni sindacali e lo stesso Ordine nazionale dei giornalisti. Quest’ultimo, anzi, ha aperto la strada a molteplici riconoscimenti del e sul valore professionale di una persona che una malvagia vulgata voleva relegare alla vituperata categoria dei «pirati».

No. Assange è un giornalista meritevole di un premio, non di una ossessiva persecuzione. Se non si considera giornalismo la pubblicazione di notizie di interesse pubblico come i racconti delle guerre e dei crimini connessi, allora ci si crogioli nel gossip.

L’ATTACCO a WikiLeaks è stato la prova generale dell’offensiva contro la sfera di autonomia e indipendenza del diritto di cronaca. Le dichiarazioni ostili all’accordo urlate dall’ex vice di Donald Trump, Mike Pence, ci spiegano bene di cosa stiamo parlando. Naturalmente, guai ai rischiosi trionfalismi. Domani è un altro giorno, e capiremo meglio.

Si è detto dell’iniziativa di associazioni come Articolo21, ReteNoBavaglio, Amnesty International, i diversi Comitati FreeAssange o dei tantissimi video di artiste e artisti coordinati da «La mia voce per Assange»; nonché di personalità della cultura come Laura Morante e Davide Dormino con la sua scultura itinerante Anything to say?.

La spinta è venuta dall’indefesso lavoro di ricerca e approfondimento della giornalista e scrittrice Stefania Maurizi e dal primo appello lanciato dal premio Nobel per la pace del 1980, l’argentino perseguitato dalla giunta militare Pérez Esquivel, in cui si evocava – appunto – il grande contropotere costituito dall’opinione pubblica.