Neanche una parola da Julian Assange. La prima conferenza stampa dopo la sua liberazione nella nativa Australia, dove ha finalmente rimesso piede dopo un quasi quindicennio, si è tenuta senza di lui. Ancora sotto lo choc esistenziale di una libertà riconquistata dopo quattordici anni kafkiani, il giornalista-hacker che forse più di ogni altro ha smascherato la doppia morale dei “nostri valori” – gli stessi nel nome dei quali si bombarda/invade/cambiano regimi/insediano fantocci – parlerà più avanti, «quando vorrà lui», perché «ha bisogno di riprendersi», come ha detto ai fotografi e sostenitori assiepatile davanti la moglie avvocata Stella ieri a Canberra.

L’ARRIVO di Assange nella capitale australiana è stato roba da fazzoletto. Commozione palpabile nei volti di tutti i protagonisti principali: il suo, quello della moglie, stretta nel primo abbraccio da uomo libero, quello del desto e instancabile padre. Rocambolesche le ultime settantadue ore: l’annuncio del patteggiamento la notte di lunedì, l’interminabile volo Londra-Saipan via Bangkok su un taxi volante affittato a soli 500mila dollari, la formalità sbrigata davanti al giudice prima di ri-decollare verso casa. Gli Usa hanno abbandonato tutti i 17 capi d’accusa tranne quello di spionaggio, di cui Assange ha ammesso colpevolezza facendo valere i cinque anni già trascorsi nella galera britannica come condanna già scontata.

OTTERRÀ la grazia Julian? – chiedono a Mrs Assange: «Penso che la otterrà se la stampa sarà unita nel respingere questo precedente. Riguarda tutti voi e la vostra futura capacità di informare il pubblico e pubblicare senza timori», ha aggiunto. Il precedente è appunto l’ammissione disperata di colpevolezza di un crimine riesumato ad arte pur di ghermirlo (l’Espionage Act, del 1917! risale alla grande peur della rivoluzione che avrebbe isterizzato gli Usa ben oltre il maccartismo) e che senz’altro distoglierà altri giornalisti degni di tale definizione dal divulgare segreti che da sempre i cittadini-contribuenti occidentali pagano con la propria ignoranza secondo leggi non scritte.

MA QUELLA di oggi va comunque vista come una mezza vittoria, indubbiamente agevolata dalle imminenti elezioni sia in Usa che in Uk: gli americani avrebbero mollato l’osso anche perché certi che il futuro governo laburista non si sarebbe lasciato umiliare tanto da permettere un’estradizione semifeudale cui, finora, quello conservatore uscente ha invano cercato di ottemperare.

In linea con l’assoluta cinematograficità che ha caratterizzato l’intera saga – strano che Netflix non abbia qualcosa in canna: Assange è passato dall’aver percorso in quindici anni a malapena venti km – quelli che separano la sede dell’ambasciata dell’Ecuador dove è rimasto per 7 anni a Knightsbridge dal carcere di Belmarsh – a coprirne, aviotrasportato, i quasi diciottomila che lo separavano da Canberra via Saipan, l’isoletta statunitense nel Pacifico dotata di giudice federale dove la sentenza di patteggiamento con il dipartimento di giustizia degli Stati Uniti ha trovato il suo compimento. È l’ombra di se stesso e si vede. Non è solo il lucore oltretombale del volto, o la spossatezza che esprime: della strafottenza con cui mostrava di non lasciarsi piegare dalla smisurata pressione che l’impero angloamericano stava esercitando su di lui non v’è traccia.

MENZIONE a parte merita l’urticante, continuo, ignavo cerchiobottismo dei media mainstream su questa vicenda, un disco che salta sempre nello stesso solco: presentare il fondatore di WikiLeaks come “un personaggio che divide, un eroe della libertà di stampa” per certuni, “un irresponsabile narcisista che ha messo in pericolo la vita altrui” per cert’altri, secondo l’ormai ben nota formula usa e getta. Avercelo, il narcisismo di Julian Assange.