In un’epoca «che stuzzica il desiderio di trarre conclusioni», Freeman’s ha voluto rappresentare, al contrario, una sorta di «allegro bistrot per chi è avvezzo al dubbio, per chi ha fame di storie»: uno spazio «che potesse tenere un minimo a bada le nostre evanescenti certezze». A poco più di dieci dal primo numero del magazine antologico che ha creato e curato, e che porta il suo nome, John Freeman introduce così l’ultimo numero della rivista, dal titolo Conclusioni (in libreria dal 15 marzo per Black Coffee, pp. 222, euro 14) che il critico letterario, poeta ed ex direttore di Granta, presenterà oggi in anteprima a Milano nell’ambito di Book Pride (Ore 18,30, Sala Lagos).

Anche per il suo commiato, almeno per il momento, Freeman’s sceglie di schierare le storie, e più in generale la letteratura, come strumenti di interpretazione del presente, non tanto per orientare i lettori, quanto per favorire in loro delle sacrosante domande. Tra i molti contributi si possono ricordare quelli firmati da Rebecca Makkai, Aleksandar Hemon, Denis Johnson, Sandra Cisneros, Julia Alvarez, Dave Eggers. Oltre al ricordo di Barry Lopez, scomparso due anni orsono, dello stesso John Freeman.

Il critico e poeta John Freeman

L’avventura della rivista che porta il suo nome volge al termine e nel presentare l’ultimo numero lei spiega che quando prese avvio si stava affermando una disinformazione di massa, oggi sempre più al centro del mainstream politico e informativo: «Freeman’s» è nata anche per ridare un senso alle parole, per riaffermare attraverso la letteratura un diritto alla critica?
Viviamo immersi nella propaganda, anche se non sempre è riconosciuta come tale. Ve ne è traccia nella pubblicità, nelle news, in quasi ogni ambito della politica. Nei giorni di pioggia vado in palestra e corro sul tapis roulant sotto un muro di televisori. Sono tutti sintonizzati su canali che si presentano come diversi, eppure esprimono solo versioni della medesima cosa. Usano la stessa grafica, gli stessi banner, a volte anche gli stessi titoli. Il tema è lo stesso: «L’America è fantastica. E sta facendo del suo meglio in questo mondo duro e crudele». Penso che George Orwell cadrebbe dalla sedia… Del resto, i messaggi di chi ricopre un ruolo pubblico si piegano così apertamente al servizio del potere, piuttosto che alla verità. E in tale condizione di irrealtà, dove ciò che è reale è soppiantato dal falso, possiamo scoprirci estranei al linguaggio: linguisticamente depressi. Perciò è necessario riconnettersi al significato delle parole, ma anche, cosa non da poco, al piacere che danno se usate bene. Forse è per questo che i poeti diventano popolari durante i periodi di crisi politica. In America questo ha rafforzato una generazione di poeti di talento, da Solmaz Sharif a Terrance Hayes. Ho visto le loro poesie riprodotte sui cartelli durante le proteste. È più di uno slogan. La poesia restituisce al linguaggio la sua qualità più intima e potente. Collega il linguaggio al corpo. Ci permette di dire cose importanti, tenere, significative. Può anche essere usato per la critica.

In un recente libro del filosofo sud-coreano Byung-Chul Han si affronta la «crisi della narrazione» (Einaudi). Di come ciò che ha dato a lungo senso al mondo e al percepirsi parte di realtà collettive sia diventato una merce come le altre, trasformandosi in storytelling commerciale, politico, culturale… Cosa ne pensa?
Credo che nel nostro mondo dominato dallo storytelling si mescoli tutto: meme, cliché e storie vere e proprie. Su Instagram Reels o Tik Tok le persone postano scene dove si mettono in posa pronunciando solo con le labbra battute di film o canzoni celebri. Questa performance di massa individualizzata dimostra quanto le persone vogliano far parte di una storia collettiva, anche se tengono soprattutto al loro ruolo personale. E questa «partecipazione», come gran parte delle cose che facciamo, finisce per essere mercificata. Ogni volta che viene riprodotta una sequenza di te che balli una certa danza in un clip di 18 secondi, un’azienda tecnologica guadagna dei soldi. Le nostre vite, i nostri gesti e, soprattutto, il nostro tempo, sono diventati una merce. Se guardi queste cose dal telefono, non sei solo uno spettatore passivo. Stai fornendo dati a una di queste grandi aziende tecnologiche che studiano cosa «ti piace», cosa guardi in modo da poterti indirizzare meglio verso la pubblicità: annunci che si presentano come storie in miniatura. Ogni parte di questo processo è industrializzata, automatizzata, magari gestita da un algoritmo. Quindi, a volte, uno degli atti più radicali che possiamo compiere è smettere di trattare le nostre vite come media. Presupponendo che ciò che facciamo abbia valore anche quando non viene visto o commentato. Allo stesso tempo, questo sistema può essere usato contro se stesso. Lo testimoniano quelli che hanno girato dei video a Gaza durante il blackout dei media israeliani, trasformandosi in giornalisti: hanno filmato la distruzione di un quartiere bombardato dagli israeliani o un padre e una madre che tengono in braccio il loro bambino un’ultima volta. Anche questa sofferenza viene mercificata attraverso il mezzo che la diffonde? Forse, ma non è solo mercificata, perché altrimenti in pochi, o forse nessuno, vedrebbe quelle immagini.

Il suo «Dizionario della dissoluzione», uscito nel 2019 negli Usa e l’anno dopo in Italia per Black Coffee, propone la «riconquista del linguaggio» come forma di resistenza alla barbarie montante: un tema di sinistra attualità se si pensa che Trump è favorito nel voto americano…
In effetti credo che ci sia una forte possibilità che Trump vinca. Biden ha fatto bene molte cose a livello nazionale, ma il suo inequivocabile sostegno alla terribile campagna di bombardamenti su Gaza ha rivelato che gli piace la guerra. Lo abbiamo visto mangiare un gelato mentre suggerisce casualmente di non sapere quando potrebbe iniziare il cessate il fuoco, mentre i bambini muoiono di fame. Questa non è un’immagine che verrà superata facilmente. Tutti i politici mentono, alcuni più di altri, ma il marchio di Biden come politico è sempre parso affidabile: lo stile «buon vecchio Joe». Quanto a Trump, l’unica cosa positiva che si può dire di lui è che non gli piaceva la guerra. Per il resto è stato un disastro ed è estremamente pericoloso, ma non soffre del disprezzo dell’opinione pubblica quando mente perché tutto nella sua persona dice: guardami, sono un imbonitore da carnevale! Ti fideresti di me? Chi lo ha votato nel 2016 voleva protestare contro quello che considera lo status quo di Washington. Anche se Trump si muove in quello stesso sistema da professionista.

Proprio «il fenomeno Trump», alimentato anche da paure, rabbia e incertezze concrete, pare nutrirsi della «crisi di senso» del Paese, quasi la democrazia avesse perso il proprio vocabolario, la propria capacità di parlare ai cittadini…
In realtà, secondo molti, l’America non è più da tempo una democrazia, quanto piuttosto un’oligarchia amministrata. Basti pensare al modo in cui funzionano i collegi elettorali che spesso non assicurano una rappresentanza reale alle scelte espresse dai cittadini. Detto questo, il problema è che la democrazia, anche nel senso metaforico di dar voce delle persone, non sempre viene ascoltata per quello che dice. Una parte degli americani finisce per odiare questo sistema: pensiamo a quando dà voce a quei bianchi arrabbiati e spaventati che hanno la sensazione che gli venga portato via qualcosa. Si dice che il Paese abbia sviluppato un complesso negativo su se stesso e abbia bisogno di essere rassicurato sul fatto che è ancora «fantastico». Trump ha sfruttato queste emozioni meglio di molti politici di carriera, e ciò che viene fatto ora per soddisfare queste emozioni è spaventoso: si vietano i libri, rendendo impossibile parlare di alcuni aspetti del passato americano. E non devo spiegare a un italiano cosa succede quando si cancella e si idolatra allo stesso tempo una versione selettiva del passato.

In molti Stati guidati dai repubblicani sono messi al bando libri come le biografie di Martin Luther King e Mandela, i romanzi di Toni Morrison o le graphic novel di Art Spiegelman. Mai come in questo momento leggere è diventato un atto politico?
Decenni fa i repubblicani hanno capito che avrebbero potuto portare la gente alle urne sfruttando le loro paure. E una delle principali è da sempre quella che orde di non bianchi prendano il controllo del Paese. Nel 1980 Reagan fece leva su questo nel suo primo discorso elettorale per la Casa Bianca parlando di «regine del welfare». George H.W. Bush pubblicò annunci su un prigioniero nero, Willie Horton che rilasciato dal carcere aveva commesso dei crimini violenti. E quando, 20 anni fa, il figlio di Bush rischiava di perdere le primarie contro John McCain fu fatta circolare la voce che McCain avesse «un figlio nero» fuori dal matrimonio. Trump, dal canto suo, ha dichiarato esplicitamente che gli stupratori messicani si stavano riversando in America. Ciò che sta accadendo ora è che l’arma del razzismo si sta rivolgendo verso il sistema educativo: il risultato è un picco di divieti di libri che riflettono o raccontano le radici razziste e genocide del Paese. Mai prima d’ora c’era stato uno sforzo così concertato per cancellare il passato dell’America affrontando le storie che racconta ai suoi figli. Un fenomeno spaventoso perché ha assunto una sorta di vita propria.

Cesare Pavese parlava degli Usa e della cultura americana come del «gigantesco teatro dove (…) veniva recitato il dramma di tutti»: uno schermo gigante su cui passavano anche le nostre vite. «Il canone americano» racchiude ancora questa possibilità o riflette piuttosto l’eco di un immaginario divenuto globale?
Uno dei motivi per cui ho dato vita a Freeman’s è che credo nella letteratura americana nel contesto del mondo. L’obiettivo della rivista era creare «un bistrot di lettura», ma in cui non esistesse un centro implicito. Non uno spazio in cui la letteratura statunitense americanizzava il mondo, ma dove il mondo si incrociava e parlava con se stesso, sognava insieme a se stesso. È un’idea utopica, ma non si può criticare chi sogna, cos’altro possiamo fare? In quale altro modo possiamo iniziare a immaginare un mondo futuro più simile alle parti migliori del nostro mondo?