Ci vorrà tutta l’abilità di una vecchia volpe delle trame parlamentari per riportare in aula e far approvare il pacchetto bocciato dal senato mercoledì scorso di .111 miliardi di dollari. Sono i fondi, bocciati, per gli aiuti militari ed economici all’Ucraina e a Israele e stanziamenti per il rafforzamento del muro anti-immigrazione nella frontiera meridionale. La vecchia volpe è lo stesso Joe Biden, senatore di lungo corso prima di diventare vicepresidente e poi presidente degli Usa, esperto come pochi di manovre politiche trasversali, che tenterà di presentare, emendato, il pacchetto alla ripresa dei lavori parlamentari dopo la pausa natalizia. Eppure è lui, la vecchia volpe, l’autore dell’escamotage che si è rivelato un clamoroso autogol politico.

Collegare tra loro tre temi così complicati avrebbe dovuto facilitare, nel disegno di Biden, soprattutto l’approvazione del più controverso, quello per il rinnovato sostegno all’Ucraina, osteggiato da un numero crescente di parlamentari repubblicani legati a Trump e sostenuto soprattutto dai parlamentari di stati con marcata presenza del complesso militare industriale. Una percentuale elevata, fino all’80%, degli investimenti militari per aiuti ad alleati come Ucraina e Israele in realtà resta in America ed è il principale volano economico di diversi stati. Alcuni dei quali decisivi nelle elezioni presidenziali e parlamentari del 2024. A far fallire l’operazione non è stata l’Ucraina, ma in parte Israele, con il voto contrario di Bernie Sanders sugli aiuti al governo di Netanyahu. «Assolutamente irresponsabile» concedergli miliardi di dollari per un’assistenza militare incondizionata, ha detto il senatore del Vermont. Decisivo è stato, sul fronte repubblicano, il capitolo della «sicurezza delle frontiere, considerato troppo morbido verso l’immigrazione «illegale».

A nulla è valso il collegamento morale enfatizzato dal presidente tra l’approvazione del pacchetto intero e la necessità di sostenere l’Ucraina nel momento in cui sembra si decidano le sorti della guerra. Biden ha bevuto il calice amaro della solitudine politica in una guerra che a questo punto è solo della sua amministrazione non più di una politica bipartisan. In un sol colpo la Casa bianca si è così trovata sguarnita su tre fronti cruciali che hanno un forte rilievo sugli orientamenti di diversi settori elettorali, togliendo luce ai dossier che gli strateghi del presidente avrebbero voluto mettere in primo piano. A cominciare dai risultati nel campo dell’occupazione e dei salari, che sono cresciuti, anche più velocemente del previsto, e il tasso di disoccupazione è sceso.

Eppure anche questi dati positivi non si riflettono conseguentemente sui sondaggi che continuano a essere molto preoccupanti, non solo in un duello con Trump ma anche in un’ipotetica sfida con Nikki Haley, in crescita nel campo repubblicano. Ma ancora più allarmanti sono le ultime rilevazioni sul tasso di approvazione della sua condotta presidenziale: 40%, contro il 53% di disapprovazione.

Come si tradurrà quest’affanno nella corsa al big dollar per sostenere quella che si presenta come la più costosa sfida presidenziale della storia?

Ieri Biden era a Hollywood ospite di un evento con star del calibro di Barbra Streisand e Steve Spielberg. Il presidente può contare su un sostanzioso aiuto finanziario, per adesso maggiore di quello di cui dispone il suo principale rivale, Donald Trump. Si pensa che possa compensare l’ormai obiettivo divario a vantaggio di Trump nei sondaggi, specie negli stati in bilico, con un formidabile investimento in propaganda e mobilitazione. Ma intanto le traversie giudiziarie del figlio Hunter – indagato anche in California per gravi reati fiscali – lo costringono a un estenuante gioco difensivo sulla sua persona, la sua famiglia e che non fa che aggravare la sua condizione, ormai stigmatizzata, di uomo anziano, troppo anziano per guidare l’America in uno dei più delicati passaggi storici.

Neppure un complotto internazionale ben organizzato avrebbe creato la convergenza di diverse situazioni avverse che in teoria avrebbero dovuto favorire la corsa per la rielezione. L’evidente ritrovata forza di Vladimir Putin, accolto con gli onori che un tempo erano riservati a un presidente statunitense, in paesi a lungo vassalli degli Usa, come Arabia Saudita ed Emirati. E Netanyahu che ostentatamente gioca al rialzo della guerra per metterlo in cattiva luce evidenziando la fragilità di questa presidenza in attesa che torni alla Casa bianca il vecchio sodale Donald.

Tutto questo in uno scenario, impensabile solo qualche mese fa, nel quale 40 stagisti della Casa bianca gli scrivono una lettera per criticare le sue scelte unilaterali a favore d’Israele. Indizi di un malessere che può tradursi in distanziamento di fette importanti di elettori progressisti, indifferenti persino al possibile ritorno di Trump, ma non più disposti a firmare assegni in bianco a Biden.