«Beh, ogni volta che diventa troppo dura, esco e vado ad ammazzare un po’ di gente». Non si deve pensare che parli solo per sé, che ci si possa permettere di sentirsi esclusi. No, Lou Ford chiama in causa un po’ tutti: la sua più che una confessione è un appello. Che riguarda tanti, troppi e che in alcuni momenti drammatici sembra interrogare l’umanità intera. In ogni caso, «la nostra razza. Noi, gente. Tutti noi che abbiamo cominciato la partita con una stecca storta, che volevamo così tanto e abbiamo avuto così poco, che avevamo intenzioni così buone e abbiamo fatto tanto male. Tutti quanti noi…». Giovane vicesceriffo di una cittadina petrolifera del Texas, Lou Ford è il protagonista di L’assassino che è in me, il romanzo del 1952 che ha proiettato Jim Thompson nell’olimpo della letteratura poliziesca.

UN AUTORE in grado di immergersi nell’abisso dell’animo umano per poi riemergere in superficie per raccontare il caos e l’apparente banalità degli istinti, compresi i peggiori, che lì regnano. E che per questa via ha saputo descrivere l’orrore al quotidiano di un mondo edificato su una promessa di felicità e sicurezza, troppo spesso dimenticata, altre volte semplicemente impossibile da realizzare, dove la sconfitta si intreccia al rancore e alla furia cieca. Un volto del male ordinario che da scrittore a lungo misconosciuto (in vita) e incline all’autodistruzione, ha voluto scorgere nella società americana della quale ha attraversato la drammatica traiettoria lungo buona parte del Novecento, era nato nel 1908 in Oklahoma ed è scomparso nel 1977 a Los Angeles lasciandosi morire di fame dopo anni di eccessi a base di alcol, sigarette e anfetamine. Una sorta di corto-circuito esistenziale che si specchia nei suoi scritti. Al punto che Robert Polito, uno dei suoi biografi (Jim Thompson, una biografia selvaggia, Alet, 2009), ne ha parlato in questi termini: «Leggere un suo romanzo è come restare intrappolati in un rifugio antiatomico insieme a un pazzo che non la smette mai di parlare e che, guarda caso, è anche il custode del rifugio».

Un’opera quella di Thompson, che si compone di una trentina di titoli, per non citare che i romanzi, fino ad ora comparsi nel nostro Paese in diverse collane e presso differenti editori, ma che HarperCollins annuncia ora di ripubblicare integralmente ad iniziare, oltre che dal già citato L’assassino che è in me (pp. 302, euro 15), da Inferno sulla terra (pp. 301, euro 15) del 1942. La scelta di rendere nuovamente disponibile questa «bibliografia dell’età della crisi» giunge più che opportuna in questa stagione di necessaria clausura e di incertezza collettiva.

Jim Thompson

FIGLIO DI UNO SCERIFFO dell’Oklahoma, corrotto e con le mani in pasta nella politica e nell’industria petrolifera locale, Thompson passò per ogni genere di lavoro, compreso quello di operaio nei pozzi petroliferi, e l’adesione al Partito comunista durante gli anni della Grande depressione – citerà a lungo Il Capitale e Edipo Re come le proprie letture preferite -, prima di poter vivere dei suoi scritti. Degli incontri fatti in quel periodo, dagli hobo che viaggiavano sui tetti dei treni, a malviventi e truffatori di ogni specie, fino ai sindacalisti rivoluzionari poi inquisiti durante il maccartismo, si troverà in seguito traccia nei suoi romanzi e racconti, pubblicati a lungo solo su riviste come True Detective o nelle collane di tascabili, accompagnati dall’etichetta «pulp». Più proficuo l’interesse del cinema, anche se spesso sopraggiunto solo dopo la scomparsa dell’autore. Da Kubrick che lo vorrà come sceneggiatore di Rapina a mano armata (1955) e Orizzonti di gloria (1957), a Sam Peckinpah che dirigerà Getaway (1972) da un suo romanzo, alla «scoperta» da parte dei francesi, Corneau e Tavernier su tutti, fino alle pellicole di Stephen Frears e Michael Winterbottom degli ultimi decenni.

Affiancato dagli estimatori a Dostoevskij e Céline quanto a capacità di esplorare i confini della disperazione e dell’abiezione umane, Thompson ha creato con le sue storie un’epopea selvaggia nella quale non c’è traccia di una possibile redenzione, come di alcuna concreta via di fuga. Un universo dove il noir trova compimento non solo come canone narrativo, ma come chiave interpretativa della realtà. «L’assassino che è in me – ha scritto in proposito Stephen King nel 1988 – è un classico americano, niente meno, un romanzo che merita uno spazio sullo scaffale accanto a Moby Dick, Le avventure di Huckleberry Finn, Il sole sorgerà ancora e Mentre morivo (…) Prima di Kerouac, prima di Ginsberg, prima di Marlon Brando ne Il selvaggio o di Yassarian in Comma 22, questo anonimo e piccolo romanziere dell’Oklahoma dai capelli rossi catturò lo spirito della seconda metà del XX secolo: vuoto, una sensazione di spreco nella terra dell’abbondanza, di disagio nel conformismo, di alienazione in quella che, sulla scia della Seconda guerra mondiale, avrebbe dovuto essere una generazione all’insegna della fratellanza».

Un’immagine da “L’assassino che è in me” diretto nel 2010 da michael Winterbottom

DIETRO L’ASPETTO BONARIO e l’apparente disponibilità verso il prossimo, il vicesceriffo Lou Ford, quasi un’incarnazione del motto «legge e ordine» è uno spietato serial killer che porta la morte con sé, raccontando in prima persona ogni sua sinistra emozione ai lettori, davanti ai quali ride compiaciuto delle sue gesta: «Finché non ci fu più una sola risata, né in me né in nessun altro. Avevo consumato tutto il riso del mondo». Non solo. Con tale personaggio si compie una piena sovversione delle stesse «regole del gioco» del noir: nei suoi romanzi Thompson trasforma i «buoni» in psicopatici pericolosi e i «cattivi», molto spesso, in sognatori perdenti. «Al pari delle fotografie di spettacoli e assassini di Weegee o della serie di tele di Andy Warhol intitolata Death and Disaster, che rappresentano incidenti automobilistici, rivolte razziali e sedie elettriche, i romanzi di Thompson si beano della loro stessa condizione incerta, contraddittoria», fino a precipitare «nella follia e nell’annientamento», scrive Robert Polito. Per nessuno dei suoi personaggi, comunque, c’è mai una via di scampo.

Così, anche in Inferno sulla terra, il primo vero romanzo di Thompson pubblicato mentre l’America celebrava il proprio secondo anno di guerra e che risentiva sia del precedente impegno politico dell’autore che del realismo narrativo imperante all’epoca, il protagonista, Jimmy Dillon, per tutti solo «Dilly», è uno scrittore spiantato, costretto a lavorare in una fabbrica di aerei impegnata a sostenere lo sforzo bellico per mandare avanti una famiglia proletaria sull’orlo dell’implosione, che non riesce più a scorgere alcun futuro davanti a sé. «Pensai a quando avevo venduto mille dollari di storie in un mese. Pensai al giorno in cui ero diventato presidente del Progetto scrittori (creato durante il New Deal per combattere la disoccupazione intellettuale e a cui prese parte lo stesso Thompson, nda). Pensai alla borsa di studio che avevo ricevuto dalla fondazione – una delle due sole borse di studio disponibili per tutto il Paese. Pensai alle lettere che avevo ricevuto da una dozzina di editori – “La cosa migliore che abbia mai letto”, “Bella roba, Dillon; continua così”, “Ti stiamo dando la paga migliore”. Mi dissi: E allora? Sei mai stato felice? Ti sei mai sentito in pace? E mi trovai costretto a rispondere: Cielo, no, per l’amor di Dio; ti sei sempre sentito all’inferno. Sei solo scivolato più in basso».

Per Jim Thompson scrivere rappresentava una sfida e il poliziesco solo uno strumento in più per metterla in atto. «Immagino che lascerò di stucco il lettore medio di romanzi gialli – spiegava -, ma forse è giusto che quel lettore resti sconcertato. Magari la voglia di intrattenimento lo costringerà alla temibile occupazione del pensare».