Fino a qual­che mese fa, a marzo ad esem­pio, quando van­tava ancora 10 punti di distacco dal con­cor­rente più vicino, Jeb Bush sem­brava pre­de­sti­nato a vin­cere la nomi­na­tion repub­bli­cana per la Casa Bianca. Forte di un alone di pre­sti­gio, un cur­ri­cu­lum da gover­na­tore di uno stato chiave (la Florida) e del nome di una dina­stia poli­tica, la sua can­di­da­tura sem­brava solo un pro­logo for­male ad un’epica sequel Clinton-Bush che tutti, o almeno i tito­li­sti dei gior­nali, davano ormai per scontata.

Anche in virtù di que­sto ragio­na­mento, gli stra­te­ghi di Bush hanno pre­fe­rito defe­rire l’annuncio per non dover sot­to­stare ai limiti sui finan­zia­menti di can­di­dati uffi­ciali. Per mesi hanno invece pre­teso di esser solo in “fase esplo­ra­tiva” inca­me­rando intanto enormi cifre in una lucrosa cam­pa­gna di fun­drai­sing. Ora dell’annuncio uffi­ciale di lunedì però, il pano­rama poli­tico repub­bli­cano è sen­si­bil­mente mutato. Bush non è più il “front run­ner” ma divide i con­sensi della destra ame­ri­cana con una mezza doz­zina di altri can­di­dati, risul­tando in molti son­daggi die­tro a nomi come Scott Wal­ker e Marco Rubio.

Quello che doveva esser un pre-coronamento ha quindi assunto toni di urgenza che gli stra­te­ghi non ave­vano messo in conto. Gli stessi “advi­sor” di Bush – un mix di col­la­bo­ra­tori dei tempi da gover­na­tore (della Flo­rida dal 1999–2007) e di fede­lis­simi del padre e del fra­tello mag­giore, George e Goerge Jr – pro­no­sti­cano ora una “dura bat­ta­glia” che si pro­trarrà pro­ba­bil­mente per vari mesi con i con­cor­renti repub­bli­cani. In altre parole da ora e durante l’autunno Bush dovrà pas­sare all’attacco di Wal­ker, Rubio e Rand Paul (ma i can­di­dati poten­ziali potreb­bero alla fine essere una ven­tina) per recu­pe­rare posi­zioni ora delle prime pri­ma­rie, a gen­naio 2016. Non a caso nel suo discorso tenuto al cam­pus del Miami Dade Col­lege, Bush ha men­zio­nato i “molti che sono molto bravi a par­lare” aggiun­gendo che i pro­blemi però biso­gna saperli risol­vere “coi fatti”.

Ma l’immagine di sta­ti­sta mode­rato che avrebbe dovuto bastare per un capo­li­sta potrebbe non essere suf­fi­ciente nello scon­tro diretto con can­di­dati forse meno pre­sen­ta­bili ma più media­tici dell’opaco Bush.

E l’immagine di con­ser­va­tore “ragio­ne­vole” pronto a con­ten­dere Hil­lary il cen­tro poli­tico potrebbe non soprav­vi­vere a pri­ma­rie in cui conta sem­pre di più la reto­rica popu­li­sta mirata alla base. Non è stato di buon auspi­cio in que­sto senso che l’annuncio di Bush sia stato inter­rotto da un gruppo di mani­fe­stanti a favore di una riforma dell’immigrazione. Pro­prio il pos­si­bi­li­smo di Bush su una rego­la­riz­za­zione dei 12 milioni di immi­grati clan­destini, lo espone a dure cri­ti­che da parte della base anti immi­grati – un esem­pio del peri­colo che implica il posi­zio­na­mento come moderato.

In teo­ria una delle prin­ci­pali qua­lità di Bush è pro­prio il poten­ziale appeal rispetto all’elettorato ispa­nico. Come ogni repub­bli­cano della Flo­rida, Jeb Bush ha sto­rici legami con la potente lobby degli esuli cubani e, attra­verso la poli­tica di Miami, con le oli­gar­chie eco­no­mi­che del Sud Ame­rica. Que­sto Bush parla inol­tre cor­ren­te­mente lo spa­gnolo ed è spo­sato a una facol­tosa Mes­si­cana, pre­sup­po­sti insomma che, se som­mati ad una aper­tura sull’immigrazione, potreb­bero poten­zial­mente incri­nare la Obama coa­li­tion in una delle sue com­po­nenti chiave. Ma è anche un’argomento che fa infu­riare lo zoc­colo duro della destra e sot­to­va­lu­tare la deriva xeno­foba e popu­li­sta della base con­ser­va­trice potrebbe rive­larsi un peri­co­loso errore di calcolo.

Intanto urge dif­fe­ren­ziarsi dagli illu­stri parenti, il 41mo e 43mo pre­si­dente. È indi­ca­tivo che lo stemma uffi­ciale della cam­pa­gna rechi il solo nome “Jeb!” omet­tendo il cognome di due pre­si­denti che non hanno esat­ta­mente lasciato un retag­gio di di ammi­ra­zione fra i con­ser­va­tori.

Per quanto Jeb Bush abbia voluto cri­ti­care la “disa­strosa poli­tica estera” di Obama. Clin­ton e Kerry, la realtà è che la guerra ira­chena sca­te­nata sotto falso pre­te­sto dal fra­tello è ancora più impo­po­lare e legata com’è al nome di fami­glia rischia di dan­neg­giare pro­prio la sua can­di­da­tura. Quando gli è stato chie­sto se rite­nesse giu­sti­fi­cata in retro­spet­tiva la cam­pa­gna ira­chena Jeb ha dap­prima detto sì, poi si è con­trad­detto e infine ha dichia­rato che è inu­tile fare ipo­te­ti­che spe­cu­la­zioni. Una defail­lance che ha dimo­strato il poten­ziale dan­noso del cognome Bush.

Alla fine l’apertura di cam­pa­gna da cui erano indi­ca­ti­va­mente assenti il padre e il fra­tello (c’era solo la madre/matriarca Bar­bara Bush) si è risolta in una serie di vaghe pro­messe elet­to­rali sulla ripresa eco­no­mica (19 milioni di nuovi posti di lavoro).

Parole a van­vera insomma, senza alcun det­ta­glio spe­ci­fico e con tema gene­rale di “porre fine al pri­vi­le­gio” di Washing­ton. Detto da un ram­pollo di una dina­stia patri­zia della poli­tica USA è stato a dir poco risibile.