Visioni

Jazz Museum, al di là del fiume un diluvio inesauribile di note

Jazz Museum, al di là del fiume un diluvio inesauribile di noteUna foto della mostra «The Wildest! Louis Prima Comes Home» al New Orleans Jazz Museum

Anime urbane Distribuita su due piani, l’istituzione è stata fondata a New Orleans nel 1961. Ospita concerti e una gran quantità di strumenti, spartiti, fotografie e dischi dai 78 giri agli mp3

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 6 luglio 2022
Flaviano De LucaNEW ORLEANS

Col respiro del fiume a pochi metri, troviamo l’edificio della vecchia zecca trasformato in Jazz Museum, un’istituzione che vivacchia con le donazioni private, con le esibizioni temporanee (tra cui Exit Stage Right: i ritratti del fotografo Zack Smith di artisti e pubblico dei venti festival annuali) sponsorizzate da aziende, con uno sguardo parziale sulle tappe di quest’arte astratta. Molto orientato sulla città, il museo è stato fondato nel 1961 e ha cambiato diverse sedi, prima di questa offerta dal Pelican State, raccogliendo negli anni testimonianze, manufatti e oggetti d’inizio secolo (la prima cornetta di Louis Armstrong) e altri più recenti (come il pianoforte bianco di Fats Domino, ampiamente rovinato dall’alluvione di Katrina, fatto restaurare con cura), in gran parte a dormire nei depositi per mancanza di risorse.
Antoine Domino ha cominciato prestissimo a darsi da fare con le mani brune sui tasti bianchi e neri, trovando a 18 anni un incarico nell’orchestra di William Diamond e il soprannome Fats, perché il suo tocco ricordava quello di due famosi musicisti: Fats Waller e Fats Pichon. Uno dei padri del rock’n’roll, con hit planetarie come Blueberry Hill, Ain’t That A Shame, Poor Me, My Blue Heaven, amava lo stile barrelhouse, quella maniera creativa e impetuosa di suonare il pianoforte (resa popolare anche da Little Richard, Huey «Piano» Smith e Dr. John). Il suo caldo timbro vocale si adattava alla grande con l’andamento del boogie-woogie, con melodie semplici e testi facili da memorizzare. «Sì, torno a casa per restare/ Sì, sto camminando per New Orleans/Eri il mio tesoro/ Finché non hai speso tutti i miei soldi/ Non ti serve ora piangere/Ci vediamo ciao e ciao/New Orleans è la mia casa» (Walking to New Orleans, Fats Domino).

Una sezione è dedicata a Louis Prima, come trombettista cantante e compositore era uno smagliante intrattenitore dal vivo, dotato di una briosa vena umoristica

SU DUE PIANI il New Orleans Jazz Museum «promuove la conoscenza globale del jazz come una delle più innovative, storicamente importanti forme d’arte musicale nel mondo». E ha un fitto calendario di concerti e programmi educativi intergenerazionali, masterclass per giovani talenti e mostre interattive insieme all’attività di presentazioni di libri, filmati e ricerche sulla storia del jazz. Le sue collezioni fanno la cronaca della vita e delle carriere degli uomini e delle donne che hanno inventato, migliorato e arricchito la tradizione del jazz di New Orleans. Ospita una gran quantità di strumenti, spartiti, fotografie, dischi e nastri, dai 78 giri ai file mp3, in una collezione musicale ampiamente digitalizzata.
Un altro noto «siciliano» di New Orleans fu Louis Prima, coi genitori figli di immigrati dell’isola, che rivendicò spesso le radici meridionali inventando quasi un genere leggero destinato a fare breccia nel cuore della comunità italo-americana e a renderlo appetibile anche per gli altri. Dal 2019, la mostra The Wildest! Louis Prima Comes Home, con l’aiuto della Gia Maione Prima Foundation, rimette in circolo le sue canzoncine, da Angelina (dedicata alla madre che lo forzava a mangiare più pasta) a Buona sera, da Just a gigolò a Oh Marie che furoreggiarono in mezza Europa. Come trombettista, cantante e compositore, Louis Prima era uno smagliante intrattenitore dal vivo, dotato di una briosa vena umoristica e conquistò New York, Las Vegas, Hollywood. In aggiunta a foto, strumenti, abiti di scena, i visitatori possono ascoltare le registrazioni, imparare a ballare sul dancefloor, fare il karaoke in cabina. Alcuni rari oggetti sono in esposizione come i dischi d’oro per il film Il libro della Giungla e altri per la serie della Capitol a seguito di straordinarie vendite. «Louis Prima dovrebbe capeggiare la foto di gruppo con Dave Bartholomew and Fats Domino, Allen Toussant, Aaron Neville and Lil Wayne», sostiene David Kunian, il responsabile musicale del New Orleans Jazz Museum «Ma io credo che non compaia molto in città perché molti suoi successi furono realizzati altrove. Però egli prese quello che aveva imparato a New Orleans e lo portò al mondo». Invece una scultura che lo raffigura, con la tromba imbracciata a due mani e sparata verso l’alto, risalta nel Musical Legends Park, un giardino bar dove si suona sin dal mattino contornati dalle effigie in bronzo, a grandezza naturale, di altre stelle cittadine Pete Fountain, Chris Owens, Irma Thomas, Allen Toussant, Al «Jumbo» Hirt, Ronnie Kole e Fats Domino, ognuno ritratto col suo strumento tranne la cantante col semplice microfono in mano.

PER STRADA i gruppi improvvisati non dimenticano l’inno conosciuto in tutto il mondo, When the saints go marching in, evoluzione di un tradizionale black spiritual, nato come messaggio di speranza e promessa di una vita migliore per gli schiavi afroamericani che desideravano la liberazione dalle loro sofferenze. Portato al successo nel 1938 da Louis Armstrong (che confesserà di averlo suonato ogni domenica al riformatorio per chiamare i ragazzi alla messa), le parole del brano evocano l’immaginario apocalittico del giorno del Giudizio Universale.

UN ALTRO grande d’inizio novecento, Buck Johnson, ricordava come il brano venisse suonato lentamente accompagnando il defunto al cimitero ma, una volta che i parenti erano andati via, si tornava indietro guidati dal suono del rullante e si passava al ragtime e si andava su un tempo molto più veloce. Tutti quelli in strada si univano nel coro e nel corteo, celebrando il passaggio in un’altra vita, con giubilo e originalità. Il brano è anche l’inno dei New Orleans Saints, la squadra di football americano, generalmente una mezza cartuccia, arrivata a vincere da «sfavorita» il Superbowl del 2009, contro gli Indianapolis Colts per 31 a 17, dappertutto visto come un segno di rinascita dopo il disastro di Katrina. Però il loro capo allenatore Sean Payton è stato squalificato qualche anno dopo (come racconta Home Team, il romanzato film Netflix sulla vicenda) perché coinvolto in loschi traffici di premi illeciti in denaro.
Il regista Jason Berry ha cercato di ricreare quell’atmosfera magica di Congo Square (con figuranti, ballerini, strumentisti) nel documentario City of a Million Dreams (2021), basato sull’omonimo suo libro, titolo preso in prestito da un brano del jazzista Raymond Burke, molto amato da Michael White, un brillante clarinettista e bandleader che perse tutto col catastrofico uragano Katrina del 2005 (che fece centinaia di morti e migliaia di sfollati) dalla sua collezione di dischi a libri antichi e ricordi affettivi, tutta la sua casa travolta dalle acque.

Alcuni rari oggetti sono in esposizione, come i dischi d’oro de «Il libro della giungla» e altri per la serie creata dalla Capitol dopo il grande successo ottenuto dal film

WHITE è uno dei protagonisti, voce narrante del film, che parte con le immagini del funerale di Allen Toussant, un altro dei grandi figli di New Orleans, pianista e produttore dai toni morbidi. L’altra protagonista è la scrittrice/blogger Deb «Big Red» Cotton che ha documentato svariate cerimonie funebri e rituali festivi cittadini ma fu colpita, durante una sparatoria nel 2013 (con oltre 19 feriti) in una second line parade durante il Mother’s Day (la festa della mamma). È stata più volte operata ma è morta per le complicazioni di alcuni interventi nel 2017. La loro è una ricerca dell’anima attuale della città intervistando gente comune e suonatori, ballerini e insegnanti.
«Per me il jazz è la melodia della democrazia, persone differenti che cercano l’armonia insieme – dice Berry- Per molti anni ho scritto del mosaico musicale della città. Ho lunghe amicizie con musicisti, Black masking indians e studiosi di tradizioni. Sono stato anche un giornalista investigativo che ha esplorato il lato oscuro della politica della Louisiana e la Chiesa Cattolica di Roma. Ho passato 25 anni filmando e dando forma a questo progetto, e guardando amici passare per trionfi, perdite, morti e rinascite. Il film usa i jazz funerals come una lente di ingrandimento per la memoria culturale del luogo, la visione di una città americana con una profonda identità africana, e per dare un forte segnale di speranza».

(3- continua, le prime due puntate sono uscite il 14 e 21 giugno)

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