L’Unione europea ha dimostrato un tempismo perfetto: il 19 luglio ha sbloccato 1,41 miliardi di euro per il sostegno ai rifugiati siriani in Turchia. Nulla di nuovo, sia chiaro: è un pezzo della seconda tranche di quei sei miliardi che nel 2016 Bruxelles mise sul piatto perché Ankara si tenesse gli oltre 3,6 milioni di profughi scappati dalla guerra.

Tempismo perfetto, si diceva: di lì a tre giorni il governatore della provincia di Istanbul emetteva l’ordinanza che legittima le retate anti-siriani. Un po’ il modello Trump, appena inaugurato negli Usa dall’Ice a caccia di migranti irregolari a casa e sul posto di lavoro. Nel caso turco si tratta di rifugiati senza asilo (solo «protezione temporanea») che la megalopoli non vuole più.

Agli occhi di Erdogan è stato il crescente sentimento anti-siriano a fargli perdere la roccaforte Istanbul, a favore del Chp: in tanti lo accusano di eccessiva accoglienza, di fornire ai siriani servizi essenziali, scuola, sanità. L’operazione era nell’aria, dicono ai media locali diversi analisti, fin dalle municipali del 31 marzo: la campagna elettorale era fitta di messaggi xenofobi e nazionalisti.

«È dato tempo fino al 20 agosto agli stranieri di origine siriana sotto protezione temporanea non registrati a Istanbul – si legge nell’ordinanza – per ritornare nelle città di registrazione. Chi non è sotto protezione temporanea è trasferito da Istanbul a città da determinare. Istanbul è chiusa a ogni nuova registrazione». Il tutto in linea con le istruzioni del ministero dell’Interno, ovvero l’Akp.

Un linguaggio apparentemente asettico che travolge decine di migliaia di persone che hanno cercato nella grande città, cuore economico del Paese, una via di uscita alla precarietà dei campi profughi a sud. Sono 547 mila i siriani registrati a Istanbul con una carta per la protezione temporanea che li autorizza a lavorare.

Per gli altri – difficili da quantificare – la città chiude. Il governatore invita i «registrati» a portare sempre con sé la carta che ne attesta la legalità. Perché ormai da settimane sono partite le retate: in tutta la provincia i poliziotti presidiano piazze, stazioni di autobus e treni e i quartieri dove è maggiore la presenza di siriani, alla caccia di «irregolari».

Chi viene preso, è costretto a firmare un documento in turco che altro non è che la richiesta di deportazione volontaria in Siria, scrive su Twitter l’attivista siriano Asaad Hanna a corredo della foto. In Siria sarebbero già stati rimandati in mille, fermati per strada senza documenti, ammanettati e fatti salire su autobus verso il confine. Anche verso Idlib, secondo avvocati turchi, la provincia divenuta hub islamista che da mesi è target dell’ultima campagna militare di Damasco e Mosca.

La paura corre tra i siriani, sempre in fuga da qualcosa. Human Rights Watch denuncia l’avvio di deportazioni di massa, mentre in tanti evitano di andare al lavoro o di aprire la porta quando suona il campanello, dice un profugo di 32 anni a The National. «Catturano un gran numero di persone e le mandano via – racconta un altro al quotidiano Evrensel – I lavoratori siriani sono terrorizzati. I datori di lavoro che li impiegano hanno paura di multe pesanti. Sono loro a dirci di andarcene».

Il governo fa leva sul risentimento montante verso i siriani, facile bersaglio (niente di originale) di chi gli imputa disoccupazione al 13% e crisi economica. Scordando le epurazioni di massa, l’economia clientelare e l’oligopolio della famiglia Erdogan e affini sugli appalti più succosi. Tanto che in un recente sondaggio l’82,3% degli intervistati ha espresso il desiderio «di mandarli tutti a casa».

Eppure i siriani vivono ai margini. Se chi aveva qualche risparmio ha aperto piccole attività commerciali, sono tanti i senza tetto, le donne costrette a prostituirsi e i bambini-lavoratori per pochi euro (negli anni sono emersi i casi di grandi firme europee dell’abbigliamento che hanno spostato la produzione in Turchia, dove a lavorare sono minorenni rifugiati). Da inizio anno si sono fatte più frequenti aggressioni a persone e negozi, soprattutto nei distretti di Istanbul – come Kucukcekmece – dove la presenza è maggiore, le insegne in arabo e una «little Syria» è fiorita nella diaspora forzata.