«Sarebbe divertente se non fosse per il fatto che hanno messo a rischio la vita di una donna. Imperdonabile…Questo insegnerà ai sauditi a restare a diverse centinaia di chilometri di distanza», ha scritto James. «Un altro esempio di un governo disperato che parla e agisce nel tentativo di avviare pubbliche relazioni positive», ha aggiunto Dan. Bastano questi commenti fatti da due lettori dell’edizione online del giornale Haaretz per comprendere come Israele sia riuscito a bruciare in un attimo, forse definitivamente, la trattativa segreta che aveva avviato con il governo di Tripoli con la mediazione degli Usa e l’appoggio del governo Meloni. Desideroso di esaltare presunti progressi nella normalizzazione con i paesi arabi, il ministro degli esteri Eli Cohen, con l’approvazione del premier Netanyahu, domenica pomeriggio ha scelto di rivelare in rete, anche in arabo e in inglese, l’incontro che di recente ha avuto a Roma con l’omologa libica Najla Mangoush. Una riunione, mediata dal ministro degli esteri italiano Tajani, che doveva restare nell’ombra. Perché, se è vero, come hanno rivelato funzionari libici all’agenzia AP, che il premier Abdelhamid Dabaiba, avrebbe detto lo scorso gennaio al direttore della Cia William Burns di essere pronto ad avviare contatti con Israele, è ugualmente vero che i cittadini libici non vogliono normalizzare le relazioni con Israele. Per gran parte di essi, Israele resta il paese che occupa terre arabe e tiene sotto occupazione militare milioni di palestinesi. Senza dimenticare che il governo di Tripoli si regge sul sostegno di forze islamiste disposte a cooperare con Usa ed Europa ma non con Israele.

I libici perciò hanno protestato, anche con violenza, domenica sera e ieri. La notizia dell’incontro tra Mangoush e Cohen era già nei social e su alcune tv arabe quando il governo Dabaiba da Tripoli, riferiva ieri Haaretz, ha chiesto a Israele di ritirare il comunicato postato in rete. Troppo tardi. «Quando su Facebook e altri social è apparsa la notizia, è cominciata una sollevazione contro il governo e Israele», ha raccontato ieri al manifesto dalla Libia Ahmed K., operatore umanitario che lavora per una ong italiana, «migliaia di persone hanno bloccato le strade di Tripoli e bruciato copertoni e cassonetti dei rifiuti. Tanti hanno issato le bandiera palestinesi, anche sul palazzo del ministero degli esteri. Altri hanno dato fuoco a una delle due residenze del premier Dabaiba e a quella del consigliere per la Sicurezza nazionale, Ibrahim Dabaiba, parente del primo ministro. Le proteste vanno avanti in queste ore, non solo a Tripoli, a Souk Aljumma. un po’ ovunque nella parte occidentale del paese. Anche a Bengasi c’è stata qualche manifestazione con le bandiere palestinesi». A Misurata i dimostranti hanno dato alle fiamme bandiere bianche e blu con la stella di Davide e magliette su cui erano state stampate le foto di Mangoush e Cohen.

Mentre i roghi illuminavano la notte di Tripoli, lo speaker del Parlamento ha accusato di alto tradimento Najla Mangoush che pure, lo sanno tutti, ha agito in accordo con il primo ministro. Però è l’unica, per ora, ad aver pagato per la decisione di Cohen e Netanyahu di rivelare, a scopo d’immagine, l’incontro a Roma. Dabaiba ha preso le distanze da lei, l’ha licenziata – l’incarico è stato assegnato in via provvisoria a Fattehalla Elzini – e la prima ministra degli esteri della Libia, stimata avvocata originaria di Bengasi ed esperta di diritto internazionale, in tutta fretta è salita su di un volo privato ed è partita per la Turchia.  Commentando la fuga di Mangoush, uno dei leader dell’opposizione israeliana, Benny Gantz, ha scritto su Twitter che «quando fai di tutto per le pubbliche relazioni e i titoli dei giornali, con zero responsabilità e lungimiranza, questo è ciò che accade». «Questo è il risultato quando si nomina ministro degli Esteri Eli Cohen, un uomo senza esperienza» ha aggiunto l’ex premier Yair Lapid. Ieri sera Barak Ravid, corrispondente diplomatico del portale Walla, ha riferito che l’Amministrazione Biden è sconvolta dalla decisione del governo Netanyahu di rendere pubblico il meeting di Roma che ha «vanificato» due anni di lavoro dietro le quinte. Non solo, l’accaduto potrebbe complicare la mediazione Usa per spingere l’Arabia saudita ad unirsi agli Accordi di Abramo tra Israele e quattro paesi arabi: Emirati, Marocco, Bahrain e Sudan.

Cohen non contento della frittata diplomatica fatta e mentre Dabaiba ribadiva sostegno alla causa palestinese, a «Gerusalemme capitale eterna della Palestina» e descriveva l’incontro a Roma come «causale e non preparato» in cui Najla Mangoush ha escluso la normalizzazione di rapporti con «l’entità sionista», il ministro ha continuato ad alimentare la stampa israeliana con indiscrezioni sul presunto contenuto dei colloqui in Italia. Avrebbe discusso con Mangoush di «cooperazione», di «come preservare il patrimonio ebraico in Libia», di aiuti israeliani al paese nordafricano, di agricoltura e gestione dell’acqua, «del grande potenziale che le relazioni possono offrire» e, naturalmente, di «sicurezza». Eppure, per l’ex ambasciatore ed esponente della destra, Danny Ayalon, l’operato sino ad oggi di Eli Cohen sarebbe un «successo» perché, tenuto a distanza da Washington, avrebbe scelto di puntare su «risultati positivi» nella regione, come quello «conseguito» dalla trattativa con la Libia.