Incurante delle condanne internazionali della brutalità del suo regime nei confronti di oppositori e attivisti dei diritti umani – grazie anche all’impunità che gli garantiscono gli Usa e l’Europa (Italia inclusa) – il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi nelle ultime settimane è apparso sorridente.

A confortarlo è la performance economica del paese. La lira egiziana si è stabilizzata dopo i minimi degli ultimi anni nei confronti del dollaro, inflazione è al 6,5% e si prevede una crescita del Pil del 6,4% tra il 2021-2022 e delle riserve di valuta estera dagli attuali 42 miliardi di dollari a 51 miliardi tra cinque anni. Il punto debole resta la disoccupazione che la crisi causata dal Covid-19 sta aggravando.

Ma le cose vanno meglio e al-Sisi si compiace dei giudizi positivi espressi di recente dalle società di rating Fitch e Goldman. A rovinare in parte il buon umore al presidente egiziano è arrivata il mese scorso la firma a Washington dell’Accordo di Abramo, la normalizzazione dei rapporti tra Emirati, Bahrain e Israele.

IN PUBBLICO AL-SISI ha applaudito, si è mostrato felice per la «pace» raggiunta dai due paesi «fratelli» con lo Stato ebraico. Dietro le quinte le cose vanno in modo ben diverso.

«L’Egitto fa buon viso a cattivo gioco, l’impatto di questo accordo sullo status del paese nella scena regionale è destinato a mutare, senza contare i riflessi economici della questione – ci spiega Uraib al Rintawi, analista del quotidiano al Dostour – L’Egitto per oltre 40 anni ha occupato un posto di grande rilievo nelle strategie mediorientali degli Stati uniti perché è stato il primo paese arabo a firmare un trattato di pace con Israele. Per questa ragione ha ottenuto finanziamenti statunitensi per decine di miliardi di dollari. E lo stesso vale per la Giordania, secondo paese arabo a firmare la pace con Israele 26 anni fa. Adesso a Egitto e Giordania si sono uniti due Stati arabi e altri paesi della regione potrebbero seguire la stessa strada molto presto. Ciò inevitabilmente ridimensiona il peso dell’Egitto, così come quello della Giordania. Diventeranno più marginali nei rapporti con gli Usa e anche con Israele. E questa nuova condizione avrà riflessi significativi per i due paesi».

NON È AZZARDATO ipotizzare il progressivo disimpegno finanziario degli Usa che per 40 anni sono stati fondamentali per le forze armate egiziane, al centro della vita nazionale e delle vicende regionali. Da tempo al Congresso si alzano le voci di chi chiede la fine di questa assistenza economica.

E aumenteranno visto che l’Accordo di Abramo non la rende più essenziale. Al Cairo temono inoltre l’intraprendenza degli Emirati, ora portati in palmo di mano dalla Casa Bianca, che starebbero facendo pressione sul Sudan affinché normalizzi al più presto i rapporti con Israele.

MANOVRE CHE METTONO in secondo piano quelle coincidenti dell’Egitto per rafforzare l’intesa con Khartoum contro il pericolo comune: la diga sul Nilo costruita dall’Etiopia. «Un motivo di preoccupazione per l’Egitto è anche il memorandum d’intesa firmato dalla compagnia israeliana proprietaria del porto di Eilat con la società di logistica DP World di Dubai – sottolinea al Rintawi – Prevede la possibilità di convogliare merci dagli Emirati via Eilat e da lì verso i porti di Haifa e Ashdod. Un percorso che potrebbe seguire anche il petrolio».

Trasportato dal Golfo a Eilat, il greggio proseguirebbe il tragitto in un oleodotto progettato negli anni 60 da Israele e Iran verso i porti dello Stato ebraico sul Mediterraneo. In questo modo si salterebbe il costoso passaggio delle petroliere per il Canale di Suez, una delle fonti di valuta più importanti per le finanze egiziane.

Al-Sisi lo sa ma non può aprire bocca. Gli Emirati, come l’Arabia saudita, sono un generoso alleato dell’Egitto a cui hanno garantito investimenti e finanziamenti per miliardi di dollari dopo il colpo di stato militare nel 2013. Abu Dhabi ha finanziato gran parte del Nuovo Cairo, progetti nel nord del Sinai e partecipato assieme all’Egitto al sostegno militare e politico dell’ex uomo forte della Libia, il generale Khalifa Haftar.

L’Egitto non solo è obbligato ad applaudire all’Accordo di Abramo che compromette il suo status nella regione e minaccia la sua economia. Deve contribuire a sopprimere le critiche contro di esso.

I MEGAFONI DEL REGIME sono impegnati da un lato a glorificare la nuova «pace» tra arabi e israeliani, e dall’altro a colpire i più deboli, i palestinesi che denunciano il tradimento arabo. Il noto giornalista Osama Saraya che – durante la Primavera araba nel 2011 aveva descritto come «teppisti» i manifestanti anti Mubarak in Piazza Tahrir per poi proclamarli «eroi» in un articolo («Il popolo ha rovesciato il regime»), scritto subito dopo la caduta dello scomparso presidente egiziano – ha speso non poche energie all’attacco del rifiuto palestinese espresso sia dall’Anp di Abu Mazen che dal movimento islamico Hamas.

«Siamo rimasti sbalorditi dalla condotta dei palestinesi – ha protestato – I palestinesi si stanno posizionando contro gli interessi arabi e a favore dell’asse iraniano-turco, cercano di far rivivere ciò che è morto e scaduto», ha aggiunto rabbioso. Intanto scade il ruolo dell’Egitto.

Un tempo con Gamal Abdel Nasser alla sua guida, era il leader riconosciuto del mondo arabo. Oggi è a rimorchio, in silenzio, delle monarchie arabe che lo nutrono.