Io Capitano il nuovo film di Matteo Garrone – penultimo titolo italiano in concorso – può essere definito un romanzo di formazione al presente, costruito cioè nel confronto con la realtà del nostro mondo del quale il regista romano prende e mescola i frammenti in una cifra fantastica che si fa trama del reale. Cosa racconta dunque Io Capitano? Di coloro che percorrono la rotta del Mediterraneo, e partono dai loro paesi in cerca di un’altra vita da qualche parte nell’Europa per finire molto spesso in fondo al mare. E se sopravvivono subiscono comunque brutalità di ogni tipo, botte, torture, ricatti, richieste di soldi, stupri, diventano schiavi, sono venduti, uccisi. È quanto la cronaca riporta ogni giorno, persino col rischio di produrre una sorta di «assuefazione», quasi che tutto questo sia il risultato ineluttabile della nostra epoca, e tale riduzione a numeri o statistiche in cui si perdono i singoli vissuti delle persone sembra persino d’aiuto alla politica più reazionaria dei respingimenti e della paura.

Garrone nel confrontarsi con questa materia fa una scelta contraria a quella del film «a tema» mettendo al centro della sua storia due adolescenti che non sono «vittime», non hanno cioè quella «giustificazione» per andare via da guerre, persecuzioni, economie traballanti ma seguono l’impulso incosciente di avventura e curiosità verso il mondo della loro età.

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Garrone: «Il bello del cinema popolare»Certo la casa di Seydou a Dakar è un po’ cadente ma anche se dormono tutti assieme in una stanza piccola lui e le sue sorelline sono felici. Le ragazzine lo adorano, e così la mamma, lui va a scuola, fa rap con gli amici e le amiche, suona alle feste dove la madre e le ragazzine ballano scatenate. Lo stesso vale per suo cugino, Moussa, eppure i due ragazzi hanno deciso di tentare il mare. Lavorano da mesi nei cantieri per mettere via i soldi, Seydou pensa così di aiutare la madre visto che il papà è morto, e forse crede al cugino quando gli dice che con la sua musica lì in Europa diventerà famoso e i «bianchi gli chiederanno l’autografo».

Poco importa se parlando con chi ci ha provato gli viene detto che non è come pensano, che la strada sarà piena di morti, che quanto vedono in tv non è vero, l’Europa non è il paradiso. Seydou e Moussa fantasticano altri orizzonti come tanti e tante adolescenti ovunque, come quando anche noi avevamo le tessere ferroviarie per girare ogni paese. Perché negargli questa possibilità di partire e di tornare? Seydou ha pure molti dubbi, si sente in colpa, se ne andrà di nascosto, senza dirlo all’amatissima madre sapendo che lei non vuole e che potrà essere per sempre. E però: esiste «per sempre» a sedici anni?
Inizia così il loro on the road: attraverso l’Africa verso il mare, da Dakar arrivano in Mali, poi Niger, Libia, la «rotta» ha la sua mappa che segna passaggi radicali a ogni confine mentre l’eccitazione dell’inizio si trasforma presto in panico, dolore e violenza. Non è come gli avevano promesso portandogli via tutti i risparmi, gli uomini che li guidano vogliono solo finire in fretta. Loro sono pacchi, merci da vendere e da comprare che passano di mano in mano senza poter difendersi.

LA MATERIA è delicata, si rischia la retorica o di banalizzare, nel caso di Garrone – che ha scritto la sceneggiatura insieme a Massimo Ceccherini, Massimo Gaudioso, Andrea Tagliaferri – il rischio è ancora più alto perché ha scelto di posizionarsi al di là del mare, in quello spazio che rimane di solito «fuoricampo». Il suo punto di vista è quello di chi compie questo «viaggio» escludendo invece noi occidentali – non sentiremo mai la parola «migranti» pronunciata da un poliziotto o un attivista o da un qualsiasi un cittadino europeo. Per fondarlo sceglie una un immagine fiabesca, che ne garantisce la verità e insieme si fa cifra politica. I suoi paesaggi potenti e di bellezza, escludono l’esotismo o la fascinazione di chi filma i luoghi lontani perché ci vengono restituiti dagli occhi di Seydou, e dalle sue emozioni. Rispecchiano la gioia che si fa nostalgia come a Dakar, diventano visione trasognata sulla sabbia bollente che echeggia i moniti di chi lo aveva avvertito, si fanno desiderio sciamanico del ragazzo di volare a casa fuori dalla cella libica fino alla madre.

IL SUO COMING OF AGE – magnifico Seydou Farr così come Moustapha Fall che interpreta il cugino – ricorda quello di Pinocchio nel ventre della Balena dove impara per necessità a cavarsela, a trovare un modo di sopravvivenza, a resistere anche alla solitudine e alla paura. Quel mondo che scopre – e noi spettatori insieme a lui – non ha nulla di ciò che aveva immaginato nei sogni eppure lui che era il più dubbioso diventerà il più ostinato; a quel punto vuole solo andare avanti, continuando a improvvisare in ogni circostanza, anche la più assurda e terribile, a cercare in quelle fratture la sua resistenza. Garrone non ce lo mostra mai come una vittima, Seydou è un combattente, qualcuno che non vuole farsi intrappolare, portare via tutto, sentimenti, empatia. E in questo movimento del suo protagonista Io Capitano è anche un film sulla cura e sulla solidarietà, la lotta di quel giovane uomo che non dimentica gli altri – il cugino, i suoi occasionali compagni di strada – e che non cede al cinismo, dovrebbe oggi più che mai essere anche la nostra.