«Non sono un documentario, sono una finzione». La definizione che Ingrid Caven ama dare di sé, e che ha ispirato il titolo del volume pubblicato in occasione della retrospettiva a lei dedicata dall’edizione 2024 del FID Marseille (Ingrid Caven – Je suis une fiction, Editions de l’Oeil) esprime il senso della sua presenza di interprete fra arte e vita – e viceversa. Attrice, cantante, protagonista della controcultura tedesca degli anni Sessanta e Settanta, Caven è stata fra gli altri la complice e la compagna dei film di R.W.Fassbinder, Daniel Schmid, Werner Schroeter ma anche Jean Eustache, Sybeberg, Ulrike Ottinger, Claire Denis fino alla stupenda Miss Vendegast omaggio amorosamente cinefilo di Luca Guadagnino nel suo Suspiria (2018)– con personaggi che esprimono una costante messa nudo di una certa idea dell’attrice e della donna affermata dal male gaze. Nata in Germania, a Saarbrücken, esordi a teatro, il cinema arriva con un cortometraggio di Peter Moland e soprattutto con L’amore è più freddo della morte (1969) il primo film che realizza insieme a Fassbinder. I due si sposano nel 1970, una scelta che sembra sorprendente per qualcuno che criticava le istituzioni borghesi come Fassbinder. Lei lo racconta così: «In realtà nonostante le sue convinzioni Rainer proveniva da una famiglia intellettuale della classe media e non aveva alcun desiderio di rompere con il suo background. Si comportava come un marito tradizionale e poteva essere molto geloso. Ma era anche divertente, con una passione sfrenata per la vita». Il matrimonio finisce nel 1972: «Era possessivo sul lavoro e non sopportava la mia indipendenza artistica, dopo la separazione però eravamo ancora più uniti».

Caven vive fra la Francia e la Germania, ha una casa a Parigi, una dualità che si proietta nelle sue esplorazioni artistiche tra musica e cinema, sperimentazione e classicità. Ironica, con l’umorismo di chi sa giocare anche con sé stessa, ama raccontare, costruire una narrazione del proprio vissuto senza celare troppo. La sua voce unica, sottile e roca al tempo stesso, che racchiude l’aura del novecento, divaga e sembra contenere interi mondi. Protagonista durante il festival di una «masterclass» o meglio come dice lei di una «maitresse-class» – con entrata zoppicante per la rottura di un tacco dei sandali bronzo – inventa subito un’altra sé. Una possibile fra le molte che prendono vita attraverso le sue parole. «Amo giocare fra più ruoli specie quando sono sul palcoscenico. Il corpo è un mezzo di comunicazione, visitato dalle innumerevoli figure femminili che entrano a far parte di un personaggio. Sono una maschera, sono trasparente. Mi piace lasciare che queste donne passino attraverso di me».

Attrice di cinema, di teatro, cantante: come racconterebbe la sua relazione con il mettersi in scena?
Sono sempre sincera, davanti alla macchina da presa e al pubblico provo a mostrarmi come mi sento nel profondo del cuore e dell’anima. L’artificio rappresenta il mio legame con me stessa, con i miei conflitti, con quel mondo interiore che mi perturba. Per sopravvivere ci creiamo delle strutture immaginarie a cui fare riferimento, alle quali appigliarsi. L’amore è una di queste, è senz’altro la più piacevole e anche la più complicata. Nel mio caso la musica è stata fondamentale. Ho iniziato a cantare da bambina mi ha dato sempre un grande piacere. Se non provo quella sensazione fisica quando sono sul palco non voglio cantare.

Ha iniziato a lavorare nella Germania degli anni sessanta, eravate una generazione e un movimento la cui sfida con l’arte era rompere la rimozione del nazismo dalla società tedesca del dopoguerra.
In quell’epoca confrontarsi con il passato tedesco e intervenire nella realtà quotidiana rappresentava per noi una necessità primaria. Stile e forma: tutto si basava su questo. Non c’è stile senza morale, non c’è morale senza stile, era il terreno su cui ci eravamo posti che nella Germania di allora significava andare contro ogni norma. Noi giovani però non potevamo sopportare il silenzio sul massacro che era stato compiuto, sull’assassinio di milioni di ebrei di cui non si poteva neppure fare menzione. Era stato tutto rimosso, ma a noi sembrava di soffocare lì dentro, in quella negazione costante di memoria. La macchina del nazismo aveva suicidato il proprio popolo, come fa del resto qualsiasi fascismo, uccidendo le generazioni successive. Era questo che volevamo combattere con la nostra presa di parola.

Fassbinder è il regista a cui la sua immagine cinematografica appare più legata. Come vi siete conosciuti?
Nel 1967 a uno spettacolo messo in scena da Peer Raben, Fassbinder era lì, aveva iniziato a fare teatro anche lui in quel momento. Ho notato che mi osservava, credo che fosse alla ricerca di persone con cui condividere la sua esperienza artistica. Anche con Hanna Schygulla aveva capito molto presto che sarebbe stata la sua attrice protagonista. Non era facile lavorare con lui, quello che chiamano il suo gruppo eravamo in realtà oltre a Rainer, Peer Raben, il coautore più importante, e io che ero anche la sola a mettere in discussione le decisioni di Fassbinder, a contraddirlo, a difendere una parità intellettuale tra uomo e donna. Le altre compresa Hanna tendevano a accettare le decisioni del regista. Lui tagliava corto, diceva che la priorità era fare il film, ma per me discutere era ugualmente importante. E in fondo anche a lui piaceva che la gente si battesse per ciò che desiderava. Aveva scelto di lavorare con delle persone che funzionavano bene insieme nel suo progetto di realizzare molti film in poco tempo, Rainer voleva lasciare qualcosa alla Germania, un’opera vasta. Eravamo molto legati, c’era una base politicamente comune e questa era la bellezza della nostra esperienza. Lui diceva che rimanendo uniti eravamo più forti, e la vita comune faceva la differenza.

In che senso? E cosa comportava per ciascuno di voi?
Forse non siamo riusciti a comunicare qualcosa di vitale alle generazioni che ci hanno seguiti, ma appunto in quegli anni la necessità di guardare in faccia la nostra storia e di alzare i tappeti che vi erano stati posti sopra ci ha costretti a confrontarci con le relazioni di potere in amore e nella vita: era essenziale per la nostra sopravvivenza come artisti. Eravamo selvaggi e tempestosi e in qualche modo tutto era rock ‘n’ roll. C’era una forza enormemente aggressiva che si esprimeva attraverso una forma, e questo influisce anche sul modo in cui si vive la propria vita, ben presto non c’è più alcuna separazione fra il vivere e l’arte.

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Il libro: frammenti di biografia
Pubblicato per la retrospettiva del Fid Marseille, «Ingrid Caven – Je suis une fiction» ( Editions de l’Oeil, 25 euro) a cura di Cyril Neyrat, raccoglie una conversazione con l’artista e una serie di interventi sulla sua arte. Una carriera che al cinema oltre alla collaborazione con Fassbinder la vede fra gli altri nei film di Daniel Schmid («Cette nuit ou jamais», 1972; «La Paloma», 1974; «L’ombre des anges», 1976); Eustache («Mes petites amoureuses»,1974); Werner Schroeter («Der Tod der Maria Malibran», 1976); Claire Denis («35 Rhums», 2008); Raul Ruiz («Il tempo ritrovato», 1999).