La premier Meloni è in letargo. La sostituisce, fino al 10 giugno, la candidata in campagna elettorale Giorgia. In questi giorni la presidente del consiglio ha in mente solo le urne: qualsiasi cosa dica o faccia va interpretata così. Ha deciso di gestire da palazzo Chigi la riforma della giustizia, pur decisa su insistenza di Fi, per non lasciare la bandiera e la conseguente visibilità agli azzurri. Ha scelto di vararla subito e non dopo il voto per farne strumento della sua propaganda. Intervistata, invece di entrare nel dettaglio della riforma, fa la comiziante e invece che del testo parla, magnificandosi, di se stessa: «Non ho paura di chi mi combatte per mantenere lo status quo. Non resto a scaldare la sedia». Guai a definirla in guerra con le toghe o, peggio, in cerca di vendetta: «Di cosa dovrei vendicarmi? Non considero la magistratura un nemico e chiedo ai magistrati se considerino loro il governo un nemico».

IL PROLUNGATO SILENZIO sull’eliminazione del caveat che impedisce di colpire il territorio russo con armi italiane si spiega allo stesso modo: l’ossessione elettorale. La materia è scivolosa, la maggioranza è divisa, i toni ringhiosi di Salvini («Macron e Scholz spalancano le porte alla guerra planetaria») non sono quelli felpati di Tajani. Ma il problema più grosso riguarda proprio lei. Si è accreditata a Washington e a Bruxelles grazie alla posizione iperatlantista, non vuole perdere in credibilità anche lì. Ci sono già i trumpiani che non le hanno perdonato il voltafaccia e che sembra la abbiano ribattezzata, in privato, «Phoney Meloni», Meloni la Falsa.

Ma non vuole neppure scontentare sul più bello un elettorato di destra che in maggioranza è contrario all’escalation, né aprire proprio ora nuove tensioni nella maggioranza. Dunque ha tenuto la bocca cucita il più a lungo possibile e quando ieri non ha più potuto far finta di niente se la è cavata con una digressione abile: «Credo non sia necessario colpire le zone russe da dove vengono gli attacchi. Meglio dotare l’Ucraina di sistemi di difesa efficaci».

Sembra una linea netta, invece è un modo astuto di aggirare il problema, che si pone proprio nell’eventualità, al momento conclamata, che la difesa non sia sufficiente. Ma di qui al consiglio Nato di luglio, quando il nodo verrà probabilmente al pettine, c’è tempo e a quel punto le elezioni saranno alle spalle. Per ora il governo resta deciso a mantenere il divieto, impugnando la Costituzione che permette solo azioni difensive come scudo e un bel po’ anche come alibi. Poi si vedrà.

TRATTANDOSI DI ELEZIONI europee una posizione limpida sulle scelte concrete e immediate nel prossimo parlamento europeo s’imporrebbe, ma quello sì che sarebbe prendersi a martellate da soli. Quindi «detta Giorgia» si rifugia nella reticenza. Appoggerà von der Leyen? «Mica faccio la cheerleader! Io sto dalla parte solo dell’Italia». La “cugina rivale” francese, Marine Le Pen? «Sta facendo un percorso interessante». Il commissario designato dall’Italia? «Mica si può decidere prima del voto».

La preoccupazione elettorale di Giorgia Meloni si declina in una percentuale: 26%, quella presa alle elezioni politiche. Un risultato inferiore sarebbe esiziale e con l’elettorato italiano, volatile come nessun altro, non si può mai dire. Ma anche galleggiare intorno a quella percentuale o sopra di un soffio, dopo essersi messa personalmente in gioco, sarebbe un brutto colpo. Però il letargo finirà, Giorgia Meloni tornerà a essere «il presidente del consiglio» e a quel punto i problemi che oggi guarda solo in termini di propaganda s’imporranno nella loro concretezza.

L’escalation, se proseguirà come tutto indica, sarà un guaio. Una svolta “pacifista” verrebbe presa come un mezzo tradimento. Insistere sulla linea dura sin qui sbandierata vorrebbe dire far esplodere la maggioranza. Neppure Salvini, che pure si è sempre inchinato, reggerebbe la licenza di colpire il territorio russo. La somma di riforme in contemporanea, che la premier voleva evitare, determina una sinergia che le gioca contro. L’unica sarà impedire almeno di dover celebrare due referendum in questa legislatura. Il premierato basta e avanza. Quanto alla separazione delle carriere, è facile che se ne riparli invece nella prossima.