C’era una volta il Sinai, oggi ne resta poco. La campagna anti-terrorismo, lanciata dal governo egiziano nel febbraio 2018 e che sarebbe dovuta durare pochi mesi, è ancora là con un bagaglio di devastazione senza precedenti. Comunità rase al suolo, appezzamenti agricoli scomparsi, coprifuoco, chiusure pressoché totali.

E ancora omicidi extragiudiziali, perquisizioni e arresti arbitrari, bombardamenti e operazioni militari nelle zone civili. Un modus operandi affatto nuovo: l’esercito egiziano opera così dal 2014, l’anno successivo al golpe del generale al-Sisi che ha individuato nei gruppi islamisti radicali (e non) il target preferenziale.

Se con i Fratelli musulmani agisce con arresti, processi di massa e condanne a morte, con i gruppi legati ad Al Qaeda e Isis – molti operativi in Sinai – agisce con campagne militari che coinvolgono inevitabilmente la popolazione civile, già strutturalmente marginalizzata dal governo centrale.

A dare un quadro più preciso è un vasto rapporto di Human Rights Watch, 134 pagine rese pubbliche ieri e frutto di un lungo lavoro di ricerca, dal 2016 al 2018. Due anni di indagini con interviste a civili, attivisti, giornalisti, ex soldati.

La conclusione è cristallina: le forze armate egiziane (40mila uomini dispiegati nella regione in collaborazione con Israele, come ammesso dallo stesso al-Sisi e denunciato da Hrw che chiede spiegazioni anche a Tel Aviv) hanno commesso – e stanno commettendo – in Sinai crimini di guerra. Di diversi tipi: arresti di massa, sparizioni forzate, omicidi extragiudiziali, raid aerei e terrestri contro civili, blocco delle comunità con conseguente stop all’ingresso di cibo e beni di prima necessità, torture, arresto di minori, morti in cella.

Il tutto giustificato dal Cairo con la guerra all’islamismo radicale, responsabile in questi anni di attentati contro turisti, comunità copta e comunità musulmana. Quanto sta avvenendo da anni nella penisola sfugge agli occhi dei più, con i giornalisti impossibilitati a entrare e le poche informazioni fornite da chi in Sinai vive.

Le famiglie raccontano di parenti scomparsi, di raid dei soldati che ordinano di lasciare la propria casa in 24 ore, di carburante che non arriva più, di distruzione delle comunità più povere per «ragioni di sicurezza».

Hrw accusa il regime di «prendere di mira e abusare dei civili» e di «non distinguere tra civili e miliziani»: «Invece di proteggere i residenti in Sinai nella loro lotta contro i miliziani – spiega Michael Page, vice direttore di Hrw per Medio Oriente e Nord Africa – l’esercito egiziano ha mostrato totale disprezzo per le loro vite, trasformando la loro quotidianità in un incubo senza fine».

Questo è l’anti-terrorismo al tempo di al-Sisi, per cui il presidente golpista riceve tributi e onori nelle capitali europee. Eppure da mesi attivisti e organizzazioni denunciano quanto accade in Sinai ai suoi 500mila abitanti: decine di migliaia di persone sono state cacciate dalle loro case e nel periodo compreso tra il 2014 e il 2018, riporta il Tahrir Institute for Middle East Policy, oltre 12mila residenti sono stati arrestati.

A dare la misura della devastazione sono le immagini satellitari (lì il regime non può arrivare) che mostrano cittadine fantasma, campi agricoli bruciati e abbandonati, interi villaggi rasi al suolo. Al loro posto checkpoint e basi militari che impediscono di fatto gli spostamenti interni, mentre Rafah – una delle principali città della Penisola, al confine con Gaza – è praticamente scomparsa della mappa, come le città di al-Arish e Sheikh Zuwayd. Degli 80mila residenti a Rafah oggi non ne restano che qualche centinaia.

Gli sfollati, denunciano le famiglie, hanno ricevuto rimborsi talmente scarsi da non potersi ricostruire una vita. E il verde che colorava le comunità, uliveti, frutteti, campi coltivati, è scomparso con i residenti: almeno 40mila alberi di ulivo sono irraggiungibili e l’agricoltura è stata bandita. In mezzo alle piante potrebbero nascondersi i miliziani, la risposta del Cairo.

Il Cairo una risposta sembra averla per tutto e gli alleati europei stanno a sentire. Il 20 maggio il Fondo monetario internazionale ha sbloccato l’ultima tranche da due miliardi di dollari di un prestito da 12, dopo aver verificato il rispetto degli accordi precedenti, ovvero l’attuazione di misure di austerity, l’incremento del pil, la rimozione delle barriere a investimenti esteri e la riduzione dell’intervento statale in economia.

Tutte cose che, tradotte nella realtà, reggono poco: se l’esercito è sempre più presente con le proprie aziende negli strategici settori delle infrastrutture e la produzione di beni di prima necessità, a subire i tagli sono le classi basse.

Colpita da una miseria con pochi precedenti, con il 60% egiziani poveri o sotto la soglia di povertà, la popolazione farà ora i conti con altri tagli e aumenti delle tasse. A luglio tocca all’elettricità: +14,9%. Ad aprile il governo aveva annunciato il taglio del 45% dei sussidi per il carburante, del 75% di quelli per l’elettricità.