Mentre la rivolta e le manifestazioni degli studenti, cui si sono sommati ampli settori della popolazione, proseguono senza tregua (compiendo oggi giusto un mese), alternandosi di giorno in giorno nei diversi quartieri della capitale piuttosto che nelle differenti città del Nicaragua; e mentre continua la repressione della polizia e soprattutto di squadracce paramilitari (motorizzate) organizzate da anni dall’orteguismo (con altri sei morti negli ultimi giorni per superare ormai la cinquantina di vittime) è iniziato il «dialogo» nel Seminario Interdiocesano Nazionale.

 

Gli studenti del movimento “19 aprile” davanti al luogo in cui si svolge il “dialogo nazionale” con le immagini di alcuni degli uccisi negli scontri (Afp)

 

L’EX COMANDANTE della rivoluzione Daniel Ortega, costretto a derogare la draconiana riforma delle pensioni, e che ha dovuto accettare l’arrivo dall’esterno della Commissione interamericana per i diritti umani (anche se per far luce sui fatti di sangue gli studenti sollecitano pure l’Onu) si è così trovato di fronte per la prima volta i leader delle proteste universitarie; che, lui e sua moglie, la vicepresidente Rosario Murillo, avevano definito «minuscoli gruppi di delinquenti e pandilleros». A mediare i vescovi della chiesa cattolica; mentre era presente il vertice dell’impresa privata (che ha osservato il più assoluto silenzio) e rappresentanti della società civile.

«Devi porre fine alla repressione e ritirare la polizia nelle caserme», gridavano arrembanti gli studenti in faccia al presidente, con qualche «assassino… vattene» (in diretta tv). E lui a rispondere (più volte interrotto) che gli agenti hanno l’ordine di non sparare; e che i saccheggi erano responsabilità dei manifestanti, spesso armati.

UN TESISSIMO NULLA DI FATTO dunque che si è concluso emotivamente con la delegazione studentesca a elencare ad alta voce, uno per uno e fra le lacrime di alcuni, il nome dei compagni uccisi; di cui Ortega, alimentando le voci sui morti inventati, ne aveva chiesto la lista. Sta di fatto che il presidente, piegandosi a un durissimo faccia a faccia che lo ha messo impietosamente a nudo, ha legittimato i ribelli come interlocutori.

La ribellione punta all’allontanamento della coppia presidenziale e al ripristino di una istituzionalità democratica del paese. Un obiettivo apparentemente improponibile; se non fosse che Ortega è profondamente solo nel suo schema di stato-partito-famiglia. Per tornare al governo nel 2007 (e farsi rieleggere incostituzionalmente per altre due volte successive grazie a brogli elettorali) aveva epurato a sinistra tutto ciò che di sandinista fosse rimasto della passata rivoluzione. E si è alleato opportunisticamente con l’avida oligarchia imprenditoriale: assicurandole esenzioni fiscali, i salari più bassi dell’istmo centroamericano e la pace sociale (grazie agli unici sindacati operanti sotto il suo controllo).
Dunque praticando lui stesso le politiche neoliberiste, comprese negoziazioni con il Fondo monetario internazionale e la ratifica del Trattato di libero commercio con gli Usa (Cafta) per mantenere rapporti di vicinato non conflittuali con lo storico nemico: «il gigante del nord». Col quale peraltro collabora nella lotta al narcotraffico a tal punto da ipotizzare l’installazione di una base della U.S. Navy nei Cayos Miskitos, nell’Atlantico nicaraguense. Anche se ben compensata da centinaia di russi che, frutto di un accordo con Vladimir Putin, stanno costruendo presso la capitale basi di osservazione satellitare e quant’altro.

AL CONTEMPO ORTEGA ha mantenuto il suo tradizionale discorso di facciata «bolivariano», soprattutto col Venezuela di Hugo Chávez, che gli ha fruttato nel corso degli anni 5 miliardi di dollari di aiuti (petrolio compreso) servitigli (in una spirale di corruttele) per arricchirsi lui, il suo clan famigliare e i fedelissimi di ciò che è rimasto del Fronte Sandinista. Non senza realizzare, con una piccola parte di quei denari, progetti assistenziali per la sua base elettorale. Che si sono dissolti con la crisi in corso a Caracas. Nessuna riforma strutturale reale dunque per le classi meno abbienti (contadini in particolare) che lo sostenevano e che ora sono più povere di prima.

Una solitudine che è diventata fatale anche al suo interno, per aver delegato alla moglie, assai invisa nello stesso orteguismo per il suo esoterico autoritarismo, il ruolo di primo ministro e oggi di vicepresidente.

 

Daniel Ortega con la first lady, nonché vice presidente del Nicaragua, Rosario Murillo (Afp)

 

DEL RESTO LO SCHEMA DI POTERE vigente in Nicaragua è imperniato su una consorte che a fine anni ’90 sconfessò la propria figlia Zoilamerica che aveva denunciato il padrastro Ortega per avere abusato per lungo tempo di lei. Daniel e Rosario sancirono quella cinica svolta politica facendosi risposare nella cattedrale dal cardinale emerito Obando y Bravo, per ingraziarsi colui che fu il più acerrimo nemico interno ai tempi della rivoluzione, e coniando lo slogan «Nicaragua cristiano, socialista e solidale».

Fino a che è arrivata a sorpresa questa ribellione, che in realtà covava da tempo. Che ha portato a una semiparalisi economica del paese; con frequenti blocchi delle strade principali e degli accessi alla capitale. Con le scuole chiuse a livello nazionale; il turismo (fino a ieri in forte crescita) in caduta libera; con piccole e medie attività che chiudono una dietro l’altra licenziando il personale. Con manifestazioni di piazza di ambo le parti che si alternano ad elevare la tensione. Solo che quelle di regime sono affollate da impiegati pubblici obbligati a parteciparvi, pena la perdita del posto di lavoro. Con saccheggi di negozi e supermercati di matrice delinquenziale (che la polizia lascia fare); e i rivoltosi impegnati talvolta a restituire le merci sottratte. In un clima di confusione e incertezza nel quale è difficile riuscire a dirimere chi è chi.

ANCHE L’IMPRESA PRIVATA ha prontamente abbandonato il patto sui generis con Ortega, ridislocandosi nel suo alveo naturale per evitare di essere tagliata fuori dagli eventi. Quello stesso padronato che paradossalmente non aveva sottoscritto la riforma delle pensioni perché pretendeva in realtà (insieme al Fmi) un aumento dell’età pensionale e una tassa ben più alta del 5% (come poi introdotto unilateralmente da Ortega) su pensioni già di per sé miserabili.

Intanto, come conseguenza dei disordini, qualche crepa in un regime apparentemente monolitico si è aperta: con l’esercito a sottolineare che non si occuperà di ordine pubblico (come all’inizio della rivolta in alcune località rurali) ma si limiterà a proteggere obbiettivi strategici (come si vede all’arrivo all’aeroporto di Managua). Anche l’Associazione dei militari in congedo ha preso le distanze dal governo. E si parla di agenti che si sono rifiutati di sparare sulla propria gente. Sta di fatto che Aminta Granera, responsabile nazionale, ha dato le dimissioni, lasciando pieni poteri al suo vice; che è poi uno dei generi degli Ortega.

IMPOSSIBILE FARE PREVISIONI su come andrà a finire la prima rivoluzione al mondo della generazione dei millennials, il cui strumento di lotta (al di là di pietre, barricate e gomme incendiate) è l’amplio e decisivo uso delle reti sociali per organizzarsi. In un contesto in cui, al di là della solidarietà popolare, sono anch’essi soli, nell’assenza di una qualsiasi opposizione o referente politico (azzerati dal regime). Checché ne pensi qualche dubbioso che (comprensibilmente) potrebbe sospettare di manipolazioni, sono spontanei, appassionati e speranzosi.

Basta stare con loro nelle piazze e per le strade che occupano: partono da valori etici di base, lontani da propensioni politiche definite; completamente inesperti ma costretti a dover scegliere in tempo reale sul campo i propri leader, a tracciare un programma alternativo che ha l’ambizione di rovesciare quella che considerano una tirannia. Non ultimo devono mostrare la capacità di mantenersi compatti. Sono gli eredi di quello spirito rivoltoso del general de hombre libres Augusto Cesar Sandino, che quasi un secolo fa tenne in scacco i marines intervenuti in Nicaragua; e che ispirò la rivoluzione degli anni ‘80.

 

Una protesta contro Ortega nella capitale, lo scorso 15 maggio (Afp)

 

LA PIÙ GRANDE INSIDIA per loro è che si devono misurare col tentativo di molti ex attori dello scenario nicaraguense di varia provenienza (ex somozisti ed ex contras compresi), oltre che a falchi del presente (a partire dalla confindustria locale) che vogliono approfittare della loro mobilitazione per ridisegnarsi un ruolo a futuro; all’insegna di uno strumentale rilancio della «democrazia». Per non parlare dei piani di destabilizzazione esterna, a partire da quelli degli Stati uniti, che da tempo si disinteressano del Nicaragua, ma che sicuramente cercheranno di approfittare della situazione per far scomparire ogni traccia di sinistra in questo paese.

La crisi non potrà protrarsi a lungo, salvo mettere in ginocchio l’economia nazionale (si calcolano già in 100 milioni di dollari le perdite nel primo mese di proteste). Nella seconda riunione a porte chiuse del «dialogo», ieri, è stata formulata un’agenda. Se fallisse, il paese precipiterebbe nel caos, con il rischio di una guerra civile.

VADA COME VADA, LA RIVOLTA ha costituito uno spartiacque nella storia del Nicaragua. Nulla tornerà come prima. E per l’ex comandante guerrigliero Daniel Ortega potrebbe essere giunto il principio della fine.

 

Universidad Politecnica de Nicaragua, Managua, 17 maggio 2018 (Afp)