Al quinto giorno dall’inizio dell’offensiva del generale Kalifa Belqasim Haftar la sua «cavalcata» su Tripoli assume sempre più i contorni di una guerra, con quasi tremila sfollati, famiglie intrappolate nelle case della periferia sud dove manca acqua e luce e infuriano i combattimenti, zone come la strada di Wadi Rabia dove le ambulanze della Mezzaluna rossa non riesce a raggiungere i feriti, il bilancio dei morti che si impenna oltre i 30, le crescenti difficoltà di rifornimenti, le richieste di tregua umanitaria da parte dell’Onu.

Haftar aveva probabilmente ipotizzato che la sua sarebbe stata una operazione-lampo. Il suo comando aveva parlato di 24-48 ore per «debellare i gruppi terroristici rimasti», cioè le milizie di Tripoli pagate dal debole governo di accordo nazionale di Serraj, e poi magari mettersi d’accordo con lo stesso Serraj da posizioni di maggior forza.

Non aveva messo in conto una resistenza così dura della «forza di difesa di Tripoli» – come si fanno chiamare ora le milizie della città-stato di Misurata, che invece non si erano mosse davanti all’assedio della loro città-martire di Sirte, dove avevano sconfitto l’Isis a prezzo di oltre 700 morti.

Ieri, dopo i raid nel fine settimana dell’aviazione misuratina sulle postazioni di Haftar a Suq al Khamis e Gharyan, sono stati invece i Mig21 del generale cirenaico a scaricare la loro pancia di bombe sull’aeroporto internazionale di Mitiga, distante una quindicina di chilometri dal centro città. Il portavoce dell’Lna – Libyan national army, l’esercito dell’Est che ha invaso la capitale dell’Ovest- Ahmed al Mismari ha detto che si sono visti «costretti» a bombardare lo scalo aereo, provocando spari della contraerea, panico, blocco dei voli. Intanto l’Lna prosegue e si combatte alla periferia sud, campo di Yarmuk.

Quei pochi uomini di Misurata più legati ad Haftar che erano stati inseriti nel Consiglio di Presidenza, il parlamentino non elettivo legato al governo di Tripoli, allo scopo di favorire il dialogo tra l’Est e l’Ovest, come Ali al Qatrani – ieri si sono dimessi accusando Serraj di aver dato spazio a bande di trafficanti di droga e alla corruzione. Ibrahim Jadhran, ex capo delle guardie petrolifere che si era ammutinato favorendo di fatto la conquista dei terminal petroliferi da parte dell’Lna, ha confermato la sua fedeltà a Serraj, ribaltando le accuse sul rivale di aver assoldato «trafficanti di droga, ribelli ciadiani e sudanesi».

In questa situazione, che sta scivolando velocemente verso la guerra aperta, restano inascoltati gli appelli internazionali – per la verità un po’ fiochi – a riprendere la strada del dialogo e a fermare le armi. La voce più fioca di tutti è quella del Cremlino che dopo aver frenato una condanna netta dell’avanzata nel Consiglio di sicurezza dell’Onu ora con il vice ministro russo Mikhail Bogdanov si pone come interlocutrice di entrambe le parti.

O la Francia che cerca di scrollarsi di dosso le accuse di essere stata informata in precedenza dell’attacco attraverso l’ambasciatrice Béatrice Le Fraper du Hellen, e di avere concordato una «agenda segreta» con il generale di Bengasi, da sempre interlocutore privilegiato di Parigi. Del resto, è poco credibile che anche l’Arabia saudita e l’Egitto non sapessero i suoi piani d’attacco: Haftar si era premurato di andare a Riyadh proprio a fine marzo, per incontrare re Salman.

E Lady Pesc Federica Mogherini non ha imbarazzo nel sostenere che i 28 sono ora «molto uniti» nel sollecitare le parti a una tregua, di cui però non si vede traccia. Da parte sua il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres – rimasto per ventiquattr’ore intrappolato nell’assedio libico – ha tentato di convocare Haftar e Serraj a Ginevra, ma l’invito, com’era prevedibile, è stato rifiutato.

Anche Mike Pompeo, segretario di Stato Usa si è detto «molto preoccupato» della situazione in Libia e ha chiesto «l’immediato ritiro» di Haftar dalla capitale. Mentre le truppe dell’Africom si sono in parte trasferite intorno agli hotel della zona turistica a difesa dei diplomatici occidentali e in parte hanno lasciato il Paese. «Abbiamo così scoperto che in Libia c’erano 300 soldati americani», ha notato Mismari.

Il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi ha garantito che l’ambasciata italiana resterà aperta, ha spedito l’ambasciatore Giuseppe Buccino a stringere la mano a Serraj e ha smentito recisamente le voci di ritiro dei circa 400 italiani dell’Operazione Ippocrate nell’ospedale italiano di Misurata e d’appoggio alla Guardia costiera.

Da domenica la controffensiva di Fayez Serraj ha un nome e, se le parole in tempo di guerra hanno un senso più simbolico perché sono messaggi al nemico oltre che propaganda, va sottolineato che si chiama «Vulcano di rabbia». E infatti ieri truppe fresche da Misurata sono affluite nella capitale.