«Nella Città Ideale di Piero della Francesca non ci sono cittadini, o meglio: non esistono realtà senza disuguaglianza, iniquità, ingiustizia sociale», spiega Carne Ross, ex-diplomatico britannico ed esperto per il Medio Oriente della delegazione britannica alle Nazioni unite, autore di The Leaderless Revolution, libro che spiega il forte legame tra il coinvolgimento delle masse nei processi decisionali e il conseguente impegno individuale nel raggiungimento degli obiettivi comuni. Ross critica i meccanismi del consenso che, anche nelle democrazie rappresentative, portano alla gerarchizzazione del potere, modello non più sostenibile, a suo avviso, nel XXI secolo.

LA CITTÀ UN PO’ PIÙ IDEALE è quella nella quale il cittadino non deleghi, ma prenda egli stesso parte alle decisioni, un po’ come accade da più di un secolo nella cooperativa John Lewis & Partners gestita da operai/proprietari in Inghilterra, che eleggono il consiglio di amministrazione e prendono parte alle decisioni aziendali, o come la partecipazione dei cittadini alla Pianificazione della Spesa (Participatory Budgeting) che a Porto Alegre è realtà dagli anni ’80.

 

[do action=”quote” autore=”Charbel Maskineh”]Privi di una guida, ci sentiamo coinvolti in prima persona[/do]

[do action=”quote” autore=”Michel Aoun”]Ho chiesto di incontrare i leader dei manifestanti, ma non ho avuto risposta[/do]

 

È il professore di Architettura e ricercatore Charbel Maskineh a citare Ross quando gli chiedo quali siano i vantaggi e i limiti di una protesta senza capi. «I manifestanti si sono riappropriati dello spazio pubblico, di luoghi simbolici fino ad ora interdetti come L’Uovo, cinema e complesso commerciale progettato nel 1965 da Philippe Karam la cui realizzazione fu interrotta durante la guerra civile (1975-90), e che ha ospitato, dall’inizio delle proteste, concerti, lezioni universitarie; o come il Teatro dell’Opera, costruzione Art Decò dismessa e luogo di incontro delle varie fazioni durante la guerra. Atti di ancor più valore alla luce della feroce privatizzazione degli spazi pubblici dal ’90 in poi. Stiamo inoltre costruendo una tenda a Riad el Solh (la piazza simbolo della protesta a Beirut, ndr) che ospiti dibattiti, scambi, che incarni l’agorà-il forum-la piazza, il luogo fisico e morale di Mumford nel quale il cittadino sia al centro della sua città e del suo Stato, e parte attiva della sfera pubblica, contribuendone allo sviluppo e non subendola».

ANCHE NADINE ALIDIB, fondatrice dell’associazione Warche 13, knowledge and Art Space, conferma la voglia della gente di Tripoli di riappropriarsi dello spazio pubblico e la necessità di «riscrivere il contratto morale che i libanesi hanno con la vita pubblica e sociale. Mi ha meravigliato molto vedere gente che non avrei mai pensato scendesse in strada: mi riferisco soprattutto alla generazione disillusa della guerra civile o alle fasce più conservatrici della città. Non avere capi sicuramente è il motivo per cui la protesta continua senza fazioni e per cui ci sentiamo coinvolti in prima persona. Esiste però una grande carenza di conoscenze giuridiche: le persone non hanno coscienza dei loro diritti ed è necessaria una rieducazione alla vita pubblica. Abbiamo poca esperienza in termini di partecipazione politica e di cittadinanza, e senza guida corriamo il rischio di interpretare ciascuno a modo proprio la protesta».

 

Sorrisi e proteste alla Festa dell’Indipendenza, nella piazza dei Martiri a Beirut (Afp)

 

Uno degli elementi significativi delle contestazioni in Libano è stata la spaccatura tra i partiti politici e la loro base. Dove è stato possibile, in tutto il Libano, sono state rimosse le immagini di propaganda politica. Una disillusione generale al grido di Kullun, ya’nee kullun (Tutti vuol dire tutti), uno degli slogan contro tutta la classe dirigente. Qui essere leader vuol dire comandare, non gestire. E questa visione della leadership è stata rifiutata.

«La mancanza di una visione collettiva organica dovuta all’assenza di capi può essere un limite. È molto più semplice agire quando c’è una struttura organizzata e gerarchica. Ci sarà bisogno di tempo e lavoro, ma siamo fiduciosi», conclude Charbel Maskineh.

IL 17 OTTOBRE, IL POPOLO si è riversato nelle strade di tutto il Libano per la prima volta senza colori politici, protestando in massa contro la corruzione e il malgoverno, e l’inadeguatezza a trovare un argine alla devastante crisi economica. Il Libano ha un sistema politico settario su base confessionale. «I numerosi partiti sono espressione delle varie comunità, hanno delle logiche fortemente clientelari e legate al territorio, mancano di veri e propri programmi politici e di un’adeguata preparazione – sottolinea Naji Abou Zeid, studente di Medicina alla USJ di Beirut -. La nostra è una lotta non solo contro i corrotti, ma contro un sistema disfunzionale».

I manifestanti continuano a chiedere dopo ormai cinque settimane un governo tecnico che approvi una nuova legge elettorale proporzionale e non settaria, una serie di riforme che privilegino l’economia locale e la lira libanese (anche il dollaro americano è moneta ufficiale in Libano), e ripensino il modello bancario, assieme ad un più ampio rinnovamento della classe dirigente.

RICHIAMANDO UN PASSAGGIO dell’intervista del 12 novembre al presidente Aoun, che infastidito afferma: «Ho chiesto di incontrare i leader dei manifestanti, ma non ho avuto risposta. Esiste una rivoluzione senza leader?», Naji ricorda i giornalisti assassinati Samir Kassir e Gebran Tueni, esposti in prima persona nella Rivoluzione dei Cedri del 2005, scaturita in seguito all’uccisione dell’allora premier Rafiq Hariri, e non nega che è meglio essere cauti.

«Durante le proteste del 2015 – ricorda Makram Abou l-Hosn, musicista e docente universitario – i capi della protesta furono ridicolizzati dal governo, e furono attaccate le persone per attaccare le idee. In Libano c’è una grande eterogeneità culturale e non esiste qualcuno che metta d’accordo tutti. Ora la classe dirigente è disorientata dall’assenza di interlocutori da demonizzare, attaccare. Anche quando hanno insinuato che eravamo fomentati da potenze straniere, abbiamo protestato simbolicamente davanti all’ambasciata francese a Beirut, e presto protesteremo davanti a quella americana. La protesta è nostra». Senso di identità testimoniato dall’uso nei social e per strada della lingua araba, quasi assente nei due sistemi educativi libanesi, uno in inglese e l’altro in francese.

DELLO STESSO AVVISO è Samir Skyne, 23 anni, studente di Architettura e Filosofia alla LU, unica università pubblica in Libano, «La protesta non vuole capi perché rifiuta il negoziato con una classe politica che ha dimostrato la propria inefficienza. La piazza pretende che le proprie richieste vengano realizzate, non mediate».

 

Beirut, 25 novembre. Cordone di militari davanti al corteo antigovernativo per evitare contatti pericolosi (che poi ci saranno) con i sostenitori di Hezbollah e Amal (Afp)

 

Sugli scenari possibili tutti si interrogano. Natalie Rashid, 21 anni, studentessa all’università Balamand, a Koura, include tra le possibilità anche quella della violenza, ma al momento sembra una strada poco praticabile: nessuno vuole ripiombare nell’incubo della guerra civile, che sarebbe allora inevitabile. Il popolo libanese lotta unito da nord a sud pacificamente, tra mille difficoltà e contraddizioni, per riappropriarsi della propria dignità, per costruirsi un mondo, se non proprio ideale, un po’ più equo.