Fuori dal Policlinico di Diyarbakir alle 8 di mattina è già comparso un piccolo mercato improvvisato. Qualcuno prepara tè e caffè, altri vendono patatine e dolciumi. Qualche ora dopo il via vai di infermieri e medici si mescola ai piccoli commercianti che pranzano: un tavolino e sopra il cibo portato dalle mogli e i figli. Difficile trovare qualcuno che parli inglese ma basta pronunciare la parola Kobane per ricevere una risposta immediata: «Viva Kobane, viva Kobane!».

«Per comprendere cosa succede a Kobane, vanno rigettate le semplificazioni dei media – spiega al manifesto Murad Akincilar, sindacalista e direttore dell’Istituto di Ricerca Politica e Sociale di Diyarbakir – Si deve tornare all’ideologia del Pkk per capire perché oggi quella città è un tale simbolo. Negli anni ’90 il Partito Kurdo dei Lavoratori ha lanciato un programma di liberazione rigettando allo stesso tempo l’ideologia dello Stato-nazione e il legame tra autodeterminazione dei popoli e statalismo. È nato così un nuovo paradigma fondato sulla creazione di comunità indipendenti, multietniche e senza Stato». Quello che i tre cantoni di Rojava, di cui Kobane è parte, hanno messo in pratica negli ultimi due anni: un progetto sociale basato su un’economia rispettosa dell’ambiente e scevra del modello del sistema industriale di Stato, sull’emancipazione delle donne e sul concetto di comune.

«L’obiettivo è la creazione di realtà indipendenti, senza che dietro ci sia uno Stato, realtà tenute insieme da un contratto sociale privo di riferimenti etnici. Il Pkk non parla solo di kurdi, ma di turkmeni, arabi, assiri. Per questo Kobane è oggi target dell’Isis e di Usa, Turchia e Kurdistan iracheno. Allo stesso tempo è anche per questo che la resistenza è tanto forte: nessuno vuole perdere quel modello, finalmente messo in pratica».

Quelle forze che temono il modello Rojava, però, ora hanno messo in campo sforzi per frenare l’avanzata dell’Isis: Barzani ha inviato 150 peshmerga, Ankara ne ha permesso il passaggio, Washington bombarda le postazioni islamiste nella città assediata. «Turchia e Usa sono quelli che per un anno hanno finto di non vedere la crescita dell’Isis, sperando che andasse a scapito della resistenza kurda – aggiunge Akincilar – Oggi intervengono: il loro obiettivo non è risolvere il conflitto, ma gestirlo e togliere il merito di un’eventuale vittoria alle Unità di protezione popolare e al Pkk. Ankara fa oggi in Siria quello che fa da quasi un secolo nel Kurdistan turco dove agisce però con altri mezzi: repressione della resistenza, discriminazione economica e sociale attraverso mancati investimenti industriali, confisca di terre, annullamento dell’identità kurda».

Diyarbakir, principale città della regione del Kurdistan turco, il cui distretto conta oltre un milione di residenti: non esistono zone industriali, non esistono fabbriche. I residenti vivono delle rimesse degli emigrati all’estero, di lavori senza contratto da stagionali nelle stesse terre confiscategli negli anni ’90 e di commercio al dettaglio. «Lo Stato qui non c’è. O meglio lo si vede solo nelle uniformi della polizia», conclude Murad. Un’opinione diffusa: le poche bandiere turche che sventolano a Diyarbakir sono protette da fili spinati, oltre i cancelli delle stazioni di polizia. L’unico sostegno arriva dal Pkk: «La ragione è semplice: il Pkk non è un movimento verticistico – dice al manifesto Iclal Ayse Küçükkirca, giovane ricercatrice kurda all’Università di Mardin – Il Pkk è fatto di donne, uomini, dei nonni prima e dei nipoti ora. Kobane ha cementato un sentimento che era già forte: in strada alle manifestazioni vedi sfilare famiglie intere, anziani, bambini».

Che Kobane possa diventare motivo di una nuova unione tra i kurdi divisi in Medio Oriente? «Ne dubito – conclude Iclal – Il riavvicinamento ai peshmerga è avvenuto per il particolare momento storico che stiamo vivendo. Le celebrazioni in strada per il loro arrivo sono legate al desiderio di vedere Kobane salva. Ma non ci sarà un dopo. A bloccarlo non sarà solo la distanza politica tra noi e Irbil, ma il ruolo della Turchia».