Se hai un sogno prenditene cura, nutrilo, non demordere mai. Ne è convinta anche Esther Horvath (Sopron, Ungheria 1979, vive a Brema) che ne parla introducendo Polarnight (a cura di Marta Cannoni e Livia Corbò /Photo Op), tra le mostre della 30/a edizione del Si Fest – Savignano Immagini Festival dal titolo Futura. I domani della fotografia con la direzione artistica di Denis Curti (fino al 26 settembre).
La fotografa documentarista ungherese vincitrice del World Press Photo 2020 (categoria Ambiente) era una bambina quando, in piena cortina di ferro, vedendo alla tv austriaca che si captava anche nella sua città, a 6 km dal confine con l’Austria, un programma scientifico su una spedizione giapponese antartica rimase affascinata dalle condizioni estreme in cui venivano condotte le ricerche.

ALL’EPOCA IL TEAM delle spedizioni polari era tutto al maschile, ma lei fantasticò che un giorno le sarebbe piaciuto farne parte. Un sogno che si è concretizzato grazie alla fotografia. «Avrei voluto dedicarmi all’arte facendo illustrazioni per libri, ma alla fine degli anni ’90 nel mio paese studiare economia assicurava un futuro migliore», spiega Horvath che, dopo la laurea, percependo la necessità di liberare la parte creativa che c’era in lei, acquistò una macchina fotografica digitale. «Era il 2005 quando sentii che il mezzo fotografico mi avrebbe permesso di raccontare storie in una maniera visuale».

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FREQUENTARE IL CORSO di fotografia documentaria dell’Icp – International Center of Photography di New York fu il passo successivo. «Tutti i risparmi che avevo guadagnato durante la mia carriera nel business li ho investiti nella formazione fotografica». Dei due portfolio realizzati durante il corso, uno era dedicato ai vigili del fuoco di New York, l’altro alle tartarughe marine. «Ogni volta che inizio un nuovo progetto mi sento come un polpo che allunga i tentacoli in varie direzioni – afferma l’autrice – Quando scoprii il Saving Sea Turtles, parte di un programma del New England Aquarium a Boston, contattai i referenti e nel giro di pochi giorni iniziò il progetto a lungo termine che mi ha portato in tutti gli altri centri degli Stati Uniti che si occupano della salvaguardia di questa specie marina. Mostrai questo portfolio a Sabine Meyer, direttrice della fotografia della rivista Audubon specializzata sulla natura che, tre settimane dopo – era il 2015 – mi affidò il mio primo incarico nell’Oceano glaciale artico. È lei la persona che ha cambiato la mia vita. Ricordo che quando ricevetti la notizia ero nel mio minuscolo appartamento a New York e quasi cadevo dalla sedia. Non dormii per tutta la notte, attaccata al computer alla ricerca di tutte le informazioni sull’Artico».

QUELLE FOTO furono pubblicate su numerose testate, tra cui il National Geographic, The New York Times e The Washington Post e dal 2015 a oggi Esther Horvath ha partecipato a 11 spedizioni, avviando l’anno successivo il progetto IceBird. In particolare, le fotografie a colori di Polarnight sono il diario della sua permanenza di quattro mesi, da settembre a dicembre 2019 – unica fotografa ufficiale – a bordo della nave rompighiaccio tedesca Polarstern per documentare ogni fase di Mosaic, la più grande spedizione polare di tutti i tempi. All’esterno, a meno 45 gradi e nell’oscurità infinita della notte polare, illuminata solo dalle luci sui caschi degli scienziati, Horvath ha scattato immagini come quella della misurazione dello spessore della neve, delle bandiere verdi che segnalano il cammino sicuro sui lastroni di ghiaccio o del carotaggio condotto dalla biologa Allison Fong, ritraendo i vari componenti della spedizione tra cui Verena Mohaupt nella tenuta detta «ananas outfit» durante il turno di guardia all’orso polare o la scienziata Melanie Bergmann mentre conta i rifiuti plastici che galleggiano nell’Oceano artico.

A QUESTI SCATTI si succedono quelli all’interno della nave. Momenti intimi che restituiscono un’idea di quotidianità: c’è chi pratica yoga, chi cuoce il pane per la colazione, chi fa la sauna finlandese e anche chi si accinge a festeggiare Halloween con una maschera di pellicola dorata. Di quest’esperienza la fotografa ricorda, oltre all’assenza di luce naturale, la sensazione di precarietà nel trovarsi su lastre di ghiaccio che all’improvviso si rompono e cominciano a muoversi, accompagnate dal rumore fortissimo del vento. «È come trovarsi in pieno terremoto. La mia prima sensazione è stata quella di scappare via. Ma dove? Ero su una lastra di ghiaccio galleggiante sopra un oceano profondo, non sulla terra. Non potevo che aspettare in piedi e guardare cosa stesse accadendo. In quel momento non ero nessuno, ero diventata parte della natura».