Oggi 12 dicembre si terranno le elezioni presidenziali in Algeria. Iniziata lo scorso 17 novembre la campagna elettorale si è svolta in un clima surreale con i 5 candidati (i due ex premier Abdelmadjid Tebboune e Ali Benflis, Azzedine Mihoubi, Abdelkader Bengrina, e Abdelaziz Belaid) che sono stati sistematicamente contestati a ogni loro apparizione pubblica dal movimento Hirak.

Una campagna, più che elettorale, di arresti e repressione poliziesca, come denunciato in questi giorni da Human Rights Watch e da Amnesty International, con centinaia di arresti e continue minacce nei confronti dei dimostranti. La scorsa settimana, davanti al Consiglio della Nazione (la camera alta del Parlamento, ndr) il ministro dell’interno, Salah-Eddine Dahmoune, ha etichettato i manifestanti come «traditori, mercenari, pervertiti e omosessuali».

Trasmesse dai canali televisivi privati e ampiamente circolate sui social network, le parole del ministro hanno suscitato reazioni di scandalo da parte delle opposizioni. Per il presidente del Raggruppamento Cultura e Democrazia (Rcd), Mohcine Belabbas, quando un ministro «scende così in basso in un discorso a nome dello stato, questo significa che la fine del sistema è vicina».

Tutti e cinque i candidati hanno evidenziato in queste settimane una certa povertà di contenuti, focalizzandosi soprattutto sulla necessità di partecipare alle elezioni.

Paradossalmente nessun candidato ha evocato la profonda crisi sociale e occupazionale del paese, le proteste dell’Hirak e la lotta pacifica del popolo algerino per un cambiamento del regime. Nessuna menzione neanche riguardo al vuoto costituzionale che si è creato dopo le dimissioni del presidente Abdelaziz Bouteflika e la presa del potere da parte del vero uomo forte del regime, il generale Ahmed Gaïd Salah.

Le elezioni da sabato scorso sono cominciate nelle sedi consolari all’estero e anche in questo caso si sono registrate proteste, soprattutto in numerose città della Francia. E una bassa affluenza (20%).

Nonostante le dichiarazioni di fiducia e l’ottimismo ostentato dal generale Salah, oltre a un robusto dispiegamento delle forze di sicurezza e militari, ufficialmente per «garantire un clima sereno per lo svolgimento delle elezioni», le proteste continuano con marce in tutto il paese e con tentativi, come in Cabilia, di ostacolare o di bruciare i seggi elettorali al grido di «makanche intikhabett» (no alle elezioni).

Da domenica tutti i prigionieri politici detenuti nelle carceri algerine, prima fra tutti la segretaria generale del Partito dei Lavoratori (Pt) Louisa Hanoune, hanno cominciato uno sciopero della fame per rivendicare «la libertà di opinione e di espressione».

Tutte le formazioni politiche hanno dichiarato pubblicamente di sostenere l’Hirak e di boicottare queste elezioni. Uniche eccezioni i due partiti del regime, il Fronte di Liberazione Nazionale (Fln) che sostiene Azzedine Mihoubi, leader del Raggruppamento Nazionale Democratico (Rnd), altro partito di governo. Molto dipenderà anche dal fronte islamista che presenta un candidato alle presidenziali, Abdelkader Bengrina, visto che il principale partito della coalizione, il Movimento per la Pace e Sviluppo (Msp), ha dichiarato che «non voterà alcun candidato», senza esprimersi sul boicottaggio.

 

Abdelkader Bengrina (Afp)

 

In un comunicato ufficiale, siglato da tutte le forze dell’opposizione democratica – Fronte delle Forze Socialiste (Ffs), Partito dei Lavoratori (Pt), Raggruppamento Cultura e Democrazia (Rcd) – e da tutte le principali associazioni e movimenti della società civile, resta ferma l’idea di «continuare la protesta, con qualsiasi mezzo pacifico, anche dopo la “mascherata elettorale”», considerata come l’ennesimo tentativo del regime di riciclarsi.

«Continuiamo a chiedere una transizione democratica che ponga le basi per una costituente per la creazione di una nuova repubblica – conclude il comunicato – sicuri che l’unica soluzione possibile sia quella della lotta pacifica del popolo algerino e consapevoli che anche i popoli di altri paesi osservano con ammirazione la nostra rivoluzione pacifica contro il sistema autoritario».