Le critiche da sinistra alla proposta di legge elettorale del governo sono concentrate, soprattutto dentro il Pd, sulle preferenze. E ieri il dissenso si è manifestato con la spaccatura del gruppo nell’assemblea del senato.

La scelta dei capilista affidata ai partiti e quindi alle loro segreterie, si sostiene, toglie motivazione e potere agli elettori e ne riduce la rappresentanza.

La critica è certamente fondata.

Se, però, ricordiamo quanto nel passato avveniva e non solo al sud con preferenze e voto di scambio, l’alternativa migliore non sembra essere tanto la reintroduzione delle preferenze, quanto l’introduzione di collegi uninominali piccoli attraverso i quali avvicinare candidati ed elettori e, quindi, eletti ed elettori.

Ma la questione preferenze che oggi domina il dibattito, e rinsalda l’alleanza Renzi-Berlusconi non è, a mio parere, la principale criticità dell’Italicum. Essa è solo una faccia della medaglia che in nome della governabilità e dell’efficienza di governo tende a sacrificare la rappresentanza degli elettori. Sentirsi rappresentati nelle istituzioni, dipende da due fattori: la presenza negli organismi eletti delle diverse istanze presenti nel paese nelle quali i singoli cittadini possono ritrovarsi anche se minoranze e la partecipazione attiva dei cittadini, attraverso l’espressione del voto, alla competizione elettorale.

L’altra faccia della legge elettorale è costituita dalla proposta di dare un forte premio di maggioranza alla “lista” che raggiunge il 40% dei voti espressi fino ad attribuirle il 55% dei seggi.

Di fronte a questa proposta la “legge truffa” di Scelba apparirebbe oggi iper-democratica ed iper-rappresentativa e se essa fosse stata presentata ai tempi di Craxi, certamente l’avremmo etichettata come segno di una tendenza accentratrice e neo autoritaria. Eppure allora la partecipazione al voto si aggirava intorno all’80%, il che avrebbe significato attribuire il 55% dei seggi ad una lista che col 40% dei voti avrebbe raccolto il consenso del 32% degli elettori.

Oggi, con una partecipazione al voto tendente al 50% la proposta contenuta nell’Italicum significa attribuire la maggioranza assoluta della Camera, adesso unico organismo abilitato a scegliere governo, componenti di organi istituzionali ed a decidere leggi e politiche economiche e sociali, ad una lista scelta dal 20% del corpo elettorale. Un quinto degli elettori, quindi, deciderebbe il futuro di tutto il paese.

Questa seconda faccia dell’Italicum è, a mio parere, pericolosissima e meraviglia che pochi finora abbiano parlato di una legge non tanto ad personam, ma “su misura” perché essa nasce dalla particolare situazione che il nostro paese sta vivendo e che, per la crisi del sistema politico italiano, vede un unico partito al comando, anche per le indubbie capacità di Renzi di muoversi nel nuovo panorama politico e di dominarlo.

Ma si può fare una legge elettorale che dovrebbe durare molti anni (negli altri paesi europei le leggi elettorali durano decenni) in base alla contingenza politica ed alla certezza che il possibile vincitore di oggi è un democratico e, quindi, non correremmo pericoli? E si può fare una legge elettorale che si basa su un assetto politico in transizione che non sappiamo in quale direzione evolverà visto che le forze politiche che seguono al secondo e terzo posto sono forze nuove ed impregnate di populismo?

A queste domande se ne affiancano altre: il nuovo modello istituzionale ed elettorale tende a ridurre il grave fenomeno dell’astensione? E, soprattutto, cosa significa il fatto che questo astensionismo coinvolge sempre più massicciamente l’elettorato storicamente di sinistra?

Voglio sperare che la mutazione che il Pd ha vissuto e sta vivendo non sia ancora arrivata a sottovalutare questo fenomeno e che la partecipazione al voto del maggior numero possibile di cittadini sia ancora un obiettivo comune a tutta la sinistra ed a tutti i democratici. Se così è una riflessione sul tema si impone.

L’astensionismo che una volta era solo un fenomeno fisiologico che riguardava la parte di popolazione più anziana, poco informata e meno attiva e colpiva in misura pressoché eguale tutti gli schieramenti, ha assunto, negli anni 2000, caratteristiche “politiche”, di scelta consapevole, di una diversa modalità di voto.

Nel 2006 la speranza che Prodi potesse vincere spinse al massimo la partecipazione – e quindi al minimo l’astensione – dell’elettorato di sinistra, mentre la rottura Lega-Berlusconi produsse l’effetto opposto nell’elettorato di centro destra.

Nelle elezioni successive l’investimento che l’elettorato di sinistra aveva così fatto fu deluso e dopo appena due anni si manifestò, per la prima volta nella storia repubblicana, il fenomeno dell’astensionismo di sinistra. Da allora l’astensionismo dei due elettorati in parte si è consolidato ed in parte è stato raccolto, nel 2013, dal M5S. Da quel momento si è, però, prodotto un fenomeno nuovo: i due elettorati hanno rotto il legame di appartenenza con le aree politiche di appartenenza e si sono ritrovati “insieme” in un nuovo soggetto sotto il segno della protesta e del populismo.

Le più recenti elezioni segnano, sotto l’aspetto della partecipazione al voto, un altro passaggio di fase che presenta, però, caratteristiche diverse per il centro destra e per il centro sinistra: in presenza di una chiara crisi della capacità di attrazione del M5S, l’elettorato di centro destra deluso da Forza Italia comincia a trovare nella sua area di appartenenza un soggetto alternativo come la Lega di Salvini, mentre l’elettorato di centro sinistra deluso dalle politiche di Renzi non trova convincenti alternative e finisce, come è stato nelle regionali emiliane, per scegliere massicciamente l’astensione.

Si consolida, così, questo fenomeno: l’elettorato di centro sinistra partecipa, eccome, alle manifestazioni sindacali e sociali, ma si ritrae al momento del voto. Un fenomeno, questo, parallelo, per chi era iscritto al Pd, all’allontanamento dalla politica attiva ed al crollo degli iscritti. La cesura tra politica e società, tra rappresentanza e rappresentati trova così a sinistra una dimensione e caratteristiche nuove e gravi ed i partiti, strumenti intermedi di raccordo e di collegamento bidirezionale toccano il punto più basso nella loro storia dal dopoguerra ad oggi. Da strutture di radicamento concreto nella società sono diventate prima liquide e poi gassose per evaporare adesso nell’indistinto di comitati elettorali sempre più autoreferenziali.

Torniamo allora alla legge elettorale ed alle domande di prima. Una legge che costringe di fatto a scegliere tra i tre populismi di Renzi, di Grillo e di Salvini, non può che spingere, soprattutto a sinistra, verso l’astensione.
All’effetto già denunciato di limitazione nella scelta dei candidati, si aggiungerebbe, così, quello della oggettiva limitazione nella scelta dei partiti.

Le “voci di sinistra” sembrano oggi assopite dal contentino del 3%: se superano questa soglia saranno rappresentate. Avremo, quindi, forse addirittura più sinistre, piccole ed irrilevanti, ma articolate e certamente rappresentative di un mondo in frantumi. Francamente penso sarebbe preferibile si ponesse il vincolo che il premio di maggioranza si attribuisce alla lista che raccoglie il consenso del 40% (meglio 45%) dei votanti, ma solo alla condizione che essa rappresenti perlomeno il 30% degli elettori e che la soglia del 3% fosse portata al 5%.

Ma questo significherebbe spingere tutti i partiti ad operare per ridurre l’astensione rafforzando la fiducia dei cittadini e le forze di sinistra ad aggregarsi per contare unificando una volta per tutte radicalismo e riformismo. Chiedere tutto questo è troppo?