C’è un tribunale, ci sono i pubblici ministeri, il giudice e la giuria. L’imputato non è presente ma le prove sono schiaccianti: ci sono parole e immagini più che sufficienti per condannarlo per alto tradimento, attentato alla costituzione e un’altra mezza dozzina di reati. Unico problema: esattamente metà dei giurati erano, e sono, suoi complici. Stiamo parlando, naturalmente, della messa in stato d’accusa di Donald Trump, su cui il senato degli Stati Uniti, per l’occasione nella funzione di Alta corte di giustizia, inizia oggi a deliberare.

Trump, come sappiamo, se ne è volato in Florida il 20 gennaio e da lì medita vendette. Se i democratici ne chiedono ugualmente la condanna è perché l’impeachment comporta non solo la rimozione dalla carica ma anche la possibile interdizione, in futuro, da qualsiasi ufficio pubblico, il che impedirebbe all’ex presidente di ripresentarsi nel 2024. Inoltre, la mancata condanna di Trump significherebbe ignorare la gravità delle sue trame per rovesciare il risultato elettorale fra il 3 novembre e il 6 gennaio.

Nei 233 anni trascorsi dalla ratifica della Costituzione americana ad oggi ci sono stati solo quattro casi di impeachment del presidente – tutti senza esito – perché questa procedura era considerata una extrema ratio, un rimedio per situazioni di pericolo immediato per il paese e l’unico momento paragonabile a quello che gli Stati Uniti stanno vivendo oggi fu nel 1868, quando il presidente era Andrew Johnson.

Durante la guerra di Secessione Johnson era un senatore del Tennessee, cioè di uno stato schiavista, ma era rimasto fedele all’Unione e Abraham Lincoln lo aveva premiato nominandolo prima governatore del suo stato e poi vicepresidente nelle elezioni del 1864. La guerra finì con la vittoria del Nord e l’abolizione della schiavitù nell’aprile 1865 ma pochi giorni dopo ci fu l’assassinio di Lincoln per mano di un fanatico sudista.

Al suo posto, quindi, entrò in carica Johnson, che restava un uomo del Sud, profondamente razzista e convinto dell’inferiorità dei negri. Di qui la sua opposizione al concedere il diritto di voto agli ex schiavi liberati e la sua proposta di riammettere nell’Unione gli stati secessionisti senza condizioni: di fatto, il presidente del Nord vittorioso si autonominava rappresentante del Sud sconfitto.

Mettendo il veto alle leggi che cercavano di risolvere il problema degli schiavi liberati e opponendosi al mantenimento delle truppe federali nel Sud per proteggerli dalla violenze del Ku Klux Klan, Johnson si inimicò entrambe le Camere dopo le elezioni del 1866: c’erano quindi tutte le condizioni politiche per un rapido impeachment.

Quando Johnson revocò dalle sue funzioni il ministro della Guerra Edwin Stanton, i repubblicani eredi di Lincoln colsero l’occasione per avviare l’impeachment per violazione del Tenure of Office Act, ma tutti sapevano che il vero conflitto era sulle politiche di ricostruzione del Sud, e in particolare sul tema della concessione del voto agli afroamericani. Il 21 febbraio 1868, Stanton si barricò nel suo ufficio, protetto da un gruppo di fedelissimi, mentre il presidente faceva cauti sondaggi presso i generali Grant e Sherman per capire se, in caso di conflitto, l’esercito si sarebbe schierato dalla sua parte o da quella del Congresso.

Johnson temeva di essere arrestato su mandato di deputati e senatori e l’impeachment rischiava di trasformarsi in una seconda guerra civile a soli tre anni dalla fine del primo conflitto. Saggiamente, Grant e Sherman risposero a Johnson che il 90% dell’esercito si sarebbe schierato contro di lui se si fosse andati allo scontro e gli consigliarono di aspettare il processo di fronte al Senato.

Alla fine sette senatori repubblicani votarono contro la rimozione di Johnson: lo scrutinio finale fu 35 a 19, un voto in meno del quorum di due terzi richiesto per la condanna. Il voto decisivo per l’assoluzione venne da un giovane senatore del Kansas, Edmund Ross, più preoccupato di arricchirsi e fare carriera che delle conseguenze dell’assoluzione di Johnson.

E oggi? L’impeachment è tornato ad essere una possibilità di fronte al tentativo di colpo di stato del 6 gennaio scorso. A deciderlo, però, saranno proprio quei senatori che per quattro anni sono stati complici di Trump e ancora ne temono l’influenza politica sulla loro base elettorale. Condannare l’ex presidente per rifondare il partito o fingere di credere alla sua difesa e assolverlo? Le scommesse dei bookmaker di Londra puntano sull’assoluzione.