I fratelli Ross

Gasoline Rainbow comincia a Wiley, Oregon, da questa piccola città un gruppo di ragazzi parte alla scoperta dell’America su un furgone verso la Costa del Pacifico perché «qualsiasi posto è meglio di Wiley e bisogna essere abbastanza coraggiosi per scoprirlo». Centinaia di chilometri che diventano un romanzo di formazione e il racconto della continua sorpresa di un paesaggio americano visto per la prima volta, un mito della frontiera riscritto con la sensibilità del presente. I due autori sono Bill e Turner Ross, tra i protagonisti oggi del cinema indipendente americano con film come Western o Bloody Nose Empty Pocket, narratori di luoghi e di persone sul confine tra documentario e finzione, con la libertà di improvvisare, di cercare quel bigger than life che spiazza qualsiasi attesa. Come in questo Ovest americano la cui geografia è ridefinita dallo slancio di un gruppo di diciottenni, dai loro incontri, dai loro sogni. Una visione che fa di Gasoline Rainbow – nel concorso di Orizzonti – una delle sorprese più belle della Mostra.
Quando rispondono i Ross lo fanno spesso insieme, lasciandosi il passo uno con l’altro. Fra i suoi molti tatuaggi Turner ha un asso di picche: c’è una storia come in ogni tatuaggio, e come nelle loro narrazioni che hanno in sé il respiro del presente e la potenza dell’immaginario.

Il vostro cinema lavora tra non fiction e fiction, nel caso di questo film sembra che quest’ultima cifra almeno rispetto la costruzione della linea narrativa sia stata prevalente anche se poi nella relazione col paesaggio, con gli incontri lungo la strada si ritrova una dimensione di realtà.

Avevamo bisogno di una struttura forte e di un piano produttivo simili a un film di finzione più tradizionale, che ci permettessero di perderci, di muoverci senza costrizioni in spazi aperti seguendo quanto accadeva ai ragazzi. Non erano dialoghi scritti veri e propri ma una sorta di armatura con cui esplorare il paesaggio mantenendo una visuale narrativa e emozionale dall’inizio alla fine con la stessa libertà del viaggio.

L’on the road è un riferimento fondante nell’immaginario americano. In che modo vi siete posti rispetto a questo?

Siamo stati ispirati da tanta letteratura e da molto altro, le storie di giovinezza attraverso spazi, frontiere e migrazioni sono universali. In America hanno un carattere mitologico, e su questo abbiamo cercato di lavorare nel film che ha qualcosa del mito perché nell’esperienza dei ragazzi si sospendono le certezze per spostarsi verso elementi surreali, qualcosa di più grande della vita che è ispirato appunto dal viaggio, dagli oracoli che incontrano lungo la strada. Ci piaceva l’idea di fare qualcosa sul nostro tempo raccogliendo una certa eredità degli anni Settanta e Ottanta, a partire dal desiderio di fuga, che è un sentimento radicato nell’età della giovinezza, quella voglia di vedere il mondo, di scoprire altri orizzonti, di vivere così un processo di cambiamento.  Ci siamo chiesti come questo mito della frontiera poteva essere ridefinito nei sogni dei diciottenni americani di adesso, e quale miglior modo per scoprirlo se non quello di attraversare fisicamente un paesaggio in cui dare voce ai propri stati d’animo? La loro è una generazione che ha vissuto la pandemia con costrizioni che hanno negato ogni avventura imponendo l’isolamento nelle case. Non ne facciamo direttamente riferimento ma nell’«End of the World Party» se ne avverte il peso, specie in quella loro voglia di festeggiare quasi non ci fosse un domani.

Come avete scelto i luoghi e le persone che i ragazzi incontrano nel loro viaggio?

Abbiamo iniziato a fare i sopralluoghi nel settembre 2020, facendo quel viaggio più volte, coi ragazzi solo una ma da soli parecchie, e lo rifaremo! Mentre eravamo lì abbiamo esplorato i diversi luoghi, scattato foto, osservato le diverse location in relazione alle storie, parlato con la gente. L’agenzia di casting ci ha mandato dei video a New Orleans con storie che potevano funzionare, c’erano anche adolescenti che ci mandavano video quasi per gioco. Molti di loro li avevamo incontrati mentre facevamo le nostre ricerche, ci interessava chi per le sue esperienze apparteneva a quel paesaggio, e poteva dare un senso a ciò che stavamo filmando, e anche se il paradigma è un artificio ogni passaggio è vero grazie a questo.

Avevate in mente dall’inizio di lavorare con degli adolescenti?

Per questa storia la giovinezza era un imperativo, questi ragazzi hanno tantissima curiosità del mondo, forse sono persino naif ma sanno sorprendersi mentre i più grandi hanno ormai un certo disincanto. E mentre li seguiamo ci piacerebbe anche che lo spettatore provasse la stessa sorpresa pensando a dei sentimenti o a delle situazioni che ha conosciuto. Accade in ogni momento nel film, è pieno di piccole e grandi epifanie impreviste, che hanno stupito anche noi che abbiamo creato le condizioni perché molto accadesse ma senza mai prestabilirlo. Questi ragazzi hanno una grande vitalità, e noi dobbiamo imparare da loro.

Siete due registi indipendenti, quanto è complicato per voi trovare i finanziamenti per i vostri film?

È un inferno! Il fatto è che abbiamo un dialogo tra di noi e non vogliamo che qualcuno ci imponga delle scelte o delle soluzioni. Così mettere insieme il budget per i nostri progetti è sempre difficile, abbiamo spesso delle idee folli, si devono fidare di cosa facciamo e del modo in cui lavoriamo che va al di là della sceneggiatura perché ci piace scoprire le cose mentre le realizziamo e non seguire un piano dove già tutto è deciso.

Vorrei tornare al paesaggio: ci sono molti segni e insieme come dicevate c’è il respiro di una continua improvvisazione che si fa immagine e cifra narrativa.

C’è in quei luoghi gente che ama la terra, e c’è il sogno di scoprire il paese, di ritrovare quella lunghissima storia di persone che si muovono. Avevamo spesso delle conversazioni su cosa era accaduto in passato in un certo luogo, e abbiamo provato a conoscerlo con l’energia dei ragazzi che ne sono parte. Le storie del paesaggio sono infinite, uno dei miei film preferiti è My Own Private Idaho (di Gus Van Sant) ma in quelle stesse location potrebbero esserci i Goonies. L’improvvisazione per noi è prioritaria anche in condizioni critiche, perché mette in gioco la nostra esperienza rispetto a una scrittura. Niente è così sorprendente come un film creato nel presente, è magico quando accade.