Come supposto, auspicato nelle rimuginazioni intorno alla Mostra, nei bilanci preventivi circa la qualità delle forme cinematografiche piuttosto che delle narrazioni presenti in questa edizione d’emergenza, Spaccapietre dei fratelli De Serio (presentato alle Giornate degli autori e in sala da qualche giorno) si conferma come una delle cose più interessanti e intense in circolazione, proprio dal punto di vista della scrittura, della sedimentazione, stratificazione di segni costituenti l’immagine, il suo incedere, il suo spegnersi in un canto dolente.

LO STESSO, magnifico, privo del timore di tenere aperti gli occhi, di restare sulle cose e gli uomini, nel fondo del bus, poi nel biancore, nel lucore oltre il lunotto; lo stesso che chiudeva Sette opere di misericordia, il film che nel 2012 rivelò il talento dei De Serio, facendo pensare a Dumont, a Larrain, forse anche a Reygadas, in virtù di una tensione al chiaroscuro, di un livore dell’immagine e uno svelamento materico del mondo che però non cadevano mai nel nichilismo. Che è quello che accade anche in Spaccapietre nonostante la scrittura dei due registi sia molto cambiata, ora più asciutta, priva delle esorbitazioni stilistiche, di certi sguardi differiti o in tralice che ad esempio in Sette opere trasfiguravano il pestaggio di Luminita proiettato sui vetri bisunti di una baracca e su volto di donna impresso su quella superficie profondante, prospettica; o di quei movimenti di macchina così modulati che pure erano uno degli aspetti più affascinanti di quel film, come quando all’inizio la macchina da presa, come in un piano-sequenza di Angelopoulos, si muoveva da destra a sinistra del quadro partendo dalla figura scurita, ferma di Herlitzka per arrivare allo stesso personaggio mentre accovacciato attizza un fuoco. Ora le sequenze sono essenziali referti di una desolazione, di un errare, di qualcosa come un’allucinazione, verso la fine: i due protagonisti si muovono per inerzia, spinti dal dolore del lutto, dentro periferie di paese diroccate, in sfacelo da pietrisco e gramigna, prive di alcuna presenza umana.

È UN SUD SLAVATO, una Puglia immersa nella sua luce meridiana, nella sua antifona fatta di terra e mito, sulle cui vie scompaiono quasi del tutto i movimenti di macchina in favore del taglio laminato, crudo della scena, che del resto apre vuoti, brevi vuoti di memoria nell’economia del film, come dei salti rispetto alla continuità spazio-temporale della narrazione. Se il film è un atto di estrema orgogliosa fedeltà ai padri, alle proprie origini rurali, operaie (il nonno spaccapietre), lo è anche dal punto di vista delle forme in questione: soprattutto nella prima parte persiste un che di neorealistico, qualcosa (una frontalità, un’angolazione) che ricorda Bruno Ricci (Ladri di biciclette) colto in flagrante dalla macchina da presa, nella sua luce stupefacente, fortuita, qualcosa che riguarda la carnagione luminosa del bambino, il suo sguardo trepido ora trasposto in quello di Antò (Samuele Carrino). Dal punto di vista ideologico mi viene in mente Leogrande che se non uno di quei padri rappresenta sicuramente un fratello, e risalendo a ritroso, trascurando la miriade di padri intermedi (forse anche l’Amelio più cupo di Così ridevano) e arrivando agli archetipi, penso al Visconti della Terra trema e ancora più indietro fino al rude realismo verghiano, alla temperie della vita nei campi, ai Mazzarò, la roba, quella così crepitante in banconote tra le mani insanguinate del caporale. Ecco l’elemento fondamentale di una messa in scena certo non priva di qualche incaglio, anche di uno spaesamento se si vuole (quello di registi piemontesi immersi nella Puglia degli avi), di uno smarrimento ma inteso come condizione di una libertà creativa che a un tratto vira, accelera verso il noir e conferma il mito.

È IL SANGUE, quello di un immigrato morto in un incendio, di un cane, poi di un cinghiale svuotato di frattaglie da Rosa, costretta poi a una liturgia di sottomissione sessuale istigata proprio dall’odore nauseante di quel sangue. La stessa coreografia mortifera e pornografica (come le pose dei corpi coartati nei film di Salieri) imposta dal padrone (un Signorile magnificamente laido a fianco del resto all’ennesima intensa interpretazione di Salvatore Esposito) che si ripeterà nello straordinario finale all’insegna di nude martellate su crani e zigomi, prima del sogno disperato, della corsa di liberazione di Antò che può ritrovare sua madre come in un vento notturno, notte dei tempi, e nella concreta fugacità dell’immaginazione, del cinema.