Ogni anno nell’Unione Europea vengono prodotti poco meno di 13 milioni di tonnellate di rifiuti tessili e circa il 4-9 per cento di tutti i prodotti tessili immessi sul mercato europeo viene distrutto senza essere mai utilizzato per lo scopo previsto. Se poi apriamo lo sguardo sul mondo, si stima che meno dell’uno per cento di tutti i tessuti sono riciclati in nuovi prodotti. Come è facilmente comprensibile tutto ciò ha un forte impatto sull’ambiente. «Quando si parla di rifiuti tessili, oltre ai prodotti legati all’abbigliamento e alle calzature che tutti percepiamo, ci si riferisce anche ai tessili per la casa (coperte, biancheria da letto, asciugamani e tovaglie), ai tessili tecnici (corde e reti, geotessili) e in generale ai rifiuti post-industriali, come fibre e ritagli», spiega Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente. «Nel 2019 questa tipologia di rifiuti è stata pari a 12,6 milioni di tonnellate, di cui 10,9 milioni di rifiuti post-consumo e 1,7 milioni di tonnellate di rifiuti post-industriali e pre-consumo», prosegue. «Nello specifico, i rifiuti di abbigliamento e calzature sono stati pari a 5,2 milioni di tonnellate, equivalenti a 12 chilogrammi per persona all’anno nell’Unione Europea. A fronte di queste quantità, solo il 22 per cento dei rifiuti tessili post-consumo, che rappresentano l’87 per cento dei rifiuti tessili, viene raccolto separatamente principalmente per essere riutilizzato o riciclato, mentre il resto viene incenerito o messo in discarica».

Minutolo, qual è impatto sull’ambiente?
Gli impatti vanno considerati lungo tutta la filiera, dalla produzione alla distribuzione fino al fine vita. Il consumo di prodotti tessili in Europa si trova al quarto posto per l’impatto sull’ambiente e sui cambiamenti climatici. Viene subito dopo settori come l’alimentazione, l’edilizia e la mobilità. Ma l’impatto non si ferma qui, essendo anche il terzo settore per quanto riguarda l’uso e il consumo di acqua e suolo e del quinto per l’uso di materie prime. L’industria della moda è responsabile circa del dieci per cento delle emissioni globali di carbonio, più del totale di tutti i voli internazionali e del trasporto marittimo messi insieme. Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, gli acquisti di prodotti tessili nell’Unione Europea nel 2020 hanno generato circa 270 chilogrammi di emissioni di CO2 per persona. Questo significa che i prodotti tessili consumati nell’Unione Europea hanno generato emissioni di gas serra pari a 121 milioni di tonnellate.

I vestiti vecchi, passati di moda o invenduti vanno nelle nostre discariche o in altri Paesi del mondo?
Gli indumenti usati possono essere esportati al di fuori dell’Unione Europea, ma per lo più, 87 per cento, vengono inceneriti o portati in discarica. Ma il problema sta a monte. Basti pensare che tra il 2000 e il 2015 la produzione di abbigliamento è raddoppiata, mentre l’utilizzo è diminuito del 36 per cento. Questo significa che c’è stata una riduzione del ciclo di vita dei prodotti tessili. Ad esempio, i cittadini europei consumano ogni anno quasi 26 chilogrammi di prodotti tessili e ne smaltiscono circa 11 chilogrammi. La crescita della moda veloce, favorita in parte dai social media e dall’industria che porta le tendenze della moda a un numero maggiore di consumatori a un ritmo più rapido rispetto al passato, ha svolto un ruolo fondamentale nell’aumento dei consumi. È da qui che bisogna cominciare a intervenire.

Nel 2019 quasi la metà dei prodotti tessili usati esportati dall’Unione Europea è finito in Africa. Qui cosa succede?
Il settore tessile pone numerose sfide in Europa per quanto riguarda il recupero e il riciclo, a cause di limitate capacità strutturali e tecnologiche a fronte della produzione in atto. Per questo motivo, l’export di rifiuti tessili è triplicato negli ultimi anni, arrivando sino a 1,7 milioni di tonnellate nel 2019, circa 3,8 chilogrammi per persona. Il 47 per cento viene inviato in Africa, dove una parte viene venduta nei mercati locali a basso costo. Tutto ciò che non può essere riutilizzato in quanto eccessivamente deteriorato, diventa rifiuto, finendo in discariche a cielo aperto o incenerito. La gestione errata di questi rifiuti comporta numerose problematiche sia all’ambiente che alla salute della popolazione. Innanzitutto, lo smaltimento degli scarti tessili tramite il loro incenerimento è responsabile di un aumento delle emissioni di carbonio, oltre a produrre tossine dannose per la popolazione. Inoltre, la maggior parte dei tessuti importati sono sintetici e sottoposti a numerosi processi che impiegano tinte e prodotti chimici. Ciò comporta gravi conseguenze per l’inquinamento delle acque, in quanto le discariche a cielo aperto possono favorire l’infiltrazione di inquinanti nel terreno e nei corsi d’acqua.

Che cosa stanno facendo l’Unione Europea e l’Italia per ridurre l’impatto ambientale?
Nell’ambito del piano d’azione per l’economia circolare, nel marzo 2022 la Commissione europea ha adottato una nuova strategia per il settore tessile che mira a realizzare, entro il 2030, tessuti più durevoli, riparabili, riutilizzabili, riciclabili e in grado di affrontare il fenomeno della «fast fashion». La nuova strategia comprende nuovi requisiti di progettazione ecocompatibile per i tessuti, informazioni più chiare, un passaporto digitale dei prodotti e l’invito per le aziende ad assumersi la responsabilità e ad agire per ridurre al minimo la propria impronta di CO2 e ambientale. Inoltre, le nuove strategie per affrontare questa problematica includono lo sviluppo di nuovi modelli di business per il noleggio di abbigliamento, la progettazione dei prodotti realizzata in modo tale da consentire che il riutilizzo e il riciclo siano più facili, sensibilizzare i consumatori ad acquistare meno capi di migliore qualità – moda sostenibile – e in generale orientare il comportamento dei consumatori verso opzioni più sostenibili.

Qual è il capo d’abbigliamento che inquina di più?
Più che parlare di singolo capo di abbigliamento è importante focalizzarci sul processo produttivo. La produzione tessile, per esempio, ha bisogno di utilizzare molto acqua, senza contare l’impiego dei terreni adibiti alla coltivazione del cotone e di altre fibre. Alcune stime indicano che per fabbricare una maglietta di cotone occorrano 2.700 litri di acqua, un volume pari a quanto una persona dovrebbe bere in 2 anni e mezzo. Nel 2020, il settore tessile è stato la terza fonte di degrado delle risorse idriche e dell’uso del suolo. In quell’anno, sono stati necessari in media nove metri cubi di acqua, 400 metri quadrati di terreno e 391 chilogrammi di materie prime per fornire abiti e scarpe per ogni cittadino dell’Unione Europea. Si stima che la produzione tessile sia responsabile del 20 per cento dell’inquinamento globale dell’acqua potabile a causa dei processi a cui i prodotti vanno incontro, come la tintura e la finitura, e che il lavaggio di capi sintetici rilasci ogni anno 0,5 milioni di tonnellate di microfibre nei mari.

Quindi?
È partendo dai processi, più che dai prodotti o dal tipo di materiale, e dall’uso che se ne fa di tali prodotti, che si può uscire da questo circolo vizioso facendolo diventare un circolo virtuoso e sostenibile per un settore strategico e importante per l’industria ed il made in Italy.