«Ha detto che non vuole chiamarlo terrorismo islamico radicale perché i terroristi sono ‘anti-islamici’». Così un partecipante al primo meeting dello staff del nuovo Consiglio della Sicurezza Nazionale ha riportato alla stampa le parole del generale McMaster, sostituto di Michael Flynn travolto dal dossier russo.

Parole pesanti, quelle del neo consigliere alla Sicurezza Nazionale, perché ribaltano la narrativa islamofoba trumpiana: l’espressione «terrorismo islamico» – ha detto McMaster, un passato nell’esercito sul fronte mediorientale, in particolare iracheno – punisce «un’intera religione», dunque va stracciata.

Chi compie atti terroristici in nome dell’Islam sta traviando la propria religione. Una posizione opposta a quella di Flynn che sovrapponeva l’Islam alla minaccia terroristica, come fossero prodotti di uno stesso stampo.

L’edificio monolitico (in apparenza) che il presidente sta costruendo non nasconde crepe e contraddizioni, più visibili in politica estera dove pare che la nuova amministrazione si muova a tentoni, mettendo sul piatto tutto e il suo contrario, dalla visione xenofoba di Bannon al sostegno indefesso al colonialismo israeliano di Kushner.

E poi c’è McMaster, all’esordio, che sembrerebbe minare le basi del Muslim Ban, provvedimento che colpisce esseri umani sulla base della nazionalità (indicativa, agli occhi di Trump, della religione «nemica»). Gli attacchi dunque non arriverebbero più solo dalla società civile e dalla magistratura, ma anche dal ristretto circolo presidenziale.

O forse è solo lungimiranza quella che muove McMaster, in vista del nuovo bando che Trump sta preparando per superare lo scoglio giudiziario e dei rapporti che questa amministrazione intende mantenere e approfondire con regimi arabi sunniti, a partire da Arabia saudita e Turchia, bastioni del sunnismo politico.

Intanto gli effetti del criticatissimo ordine presidenziale, al momento sospeso, si auto-riproducono accanto alle centinaia di arresti già compiuti tra gli irregolari: ieri a Khaled Khatib, 21 anni, uno dei registi del film candidato agli Oscar come miglior documentario “The White Helmets”, è stato vietato l’ingresso negli Stati uniti.

Avrebbe dovuto partecipare alla serata di premiazione degli Oscar. Bandito perché siriano e musulmano: si trovava già all’aeroporto di Istanbul pronto per imbarcarsi quando è stato raggiunto dal rifiuto, senza spiegazioni.

E se il documentario in questione (il racconto del lavoro del gruppo di soccorritori, Caschi bianchi, nei fronti di guerra siriani) rimane un prodotto contraddittorio per i legami – svelati negli ultimi mesi da diversi media internazionali – tra gli White Helmets e i gruppi islamisti anti-Assad e per i finanziamenti ricevuti dalle casse della monarchia saudita (non certo un campione dei diritti umani), rifiutare l’ingresso per motivi di nazionalità e religione non è accettabile.

Sorte simile per il figlio di Mohammed Ali. Il 7 febbraio è stato bloccato per il nome che porta, Mohammed Ali Jr., indicativo della sua fede. Ma lui, a differenza di Khatib, è cittadino statunitense. È stato fermato per due ore dallo staff immigrazione dell’aeroporto di Fort Lauderdale, in Florida mentre rientrava con la madre dalla Giamaica.

Lei, Khalilah Camacho-Ali, è stata lasciata passare solo dopo aver mostrato una foto che la ritraeva con il marito, il campione di pugilato e difensore dei diritti di neri, minoranze e popoli oppressi. Lui, invece, è stato trattenuto da funzionari che gli hanno posto ripetutamente paranoiche domande sulla sua religione: «Sei musulmano? Da dove hai preso il tuo nome?».

Sulla scia delle proteste che stanno accompagnando fin dal 20 gennaio, giorno dell’inaugurazione dell’amministrazione Trump, il discorso islamofobo e xenofobo del presidente, intervengono anche i democratici a cavalcare l’onda.

Alcuni democratici hanno girato il biglietto di invito in più che viene riservato ai deputati per il primo discorso ufficiale di Trump al Congresso (previsto per martedì) a immigrati musulmani. Ad ascoltarlo ci saranno, così, anche un medico iracheno e uno pakistano, una studentessa iraniana e la figlia di rifugiati palestinesi.

Trump reagisce a modo suo, via Twitter: dopo il raduno organizzato dagli attori Michael J. Fox e Jodie Foster a Beverly Hills, indetto per protestare contro le politiche sull’immigrazione della Casa bianca, il presidente ha fatto appello ai suoi sostenitori. «Forse i milioni di persone che hanno votato per rendere di nuovo grande l’America dovrebbero organizzare il loro raduno. Sarebbe il più grande di tutti».

I Dem Usa hanno scelto ieri il nuovo presidente del Partito Democratico. Alla seconda votazione, dopo un iniziale testa a testa, è stato eletto  l’obamiamo (e clintoniano) Tom Perez, ex segretario del Lavoro. Ha sconfitto il sanderista Keith Ellison, afroamericano di fede musulmana, subito nominato dal vincitore vice-presidente. Dopo l’annuncio della vittoria di Perez, alcuni sostenitori di Ellison hanno protestato gridando «il partito al popolo».