«Scusa, non so se riesco a passarteli al telefono. È la prima volta che escono da Gaza e corrono da tutte le parti». Mohammed al Hessi ride parlando dei giovani che hanno raggiunto con lui l’Italia, un paio di giorni fa. Sono attrici e attori palestinesi, tutti molto giovani. Per loro è la prima volta “fuori” e hanno tante cose da scoprire.

Mohammed è il direttore artistico di Ayyam al Masrah – Theater Day Productions. Con il suo collettivo è in Italia per festeggiare i primi 40 anni di Cospe. Per la ong che dal 1993 è impegnata in 24 paesi di Medio Oriente, Africa e America latina, stanno arrivando in tanti a Firenze. Moni Ovadia, Vladimir Luxuria, Djarah Kan, Stefano Liberti e molti altri.

Per l’occasione andrà in scena la pièce teatrale «The story is sick», quattro appuntamenti a partire da oggi, 8 settembre, alle 21.30 al Conventino Caffè Letterario di Firenze. È la prima volta che una compagnia teatrale della Striscia si esibisce in Italia. Ne abbiamo parlato con Mohammed al Hessi.

Com’è nato il progetto «The story is sick»?

Quando abbiamo iniziato, avevamo con noi 23 tra attrici e attori, partecipavano a un workshop su come si racconta una storia. Gli abbiamo chiesto di andare tra la gente e raccogliere storie dei rifugiati palestinesi a Gaza. Hanno raccolto le voci di tre generazioni di palestinesi, da Jaffa, Haifa, da tutta la Palestina storica. Storie della prima Intifada, della seconda, della vita di oggi. Storie di coppie che si sono sposate o vivono insieme o che hanno una storia d’amore. Ogni attore e attrice ha portato con sé sei storie, tre di donne e tre di uomini. Quando siamo andate a leggerle, abbiamo visto accadere qualcosa di fronte a noi: c’era qualcosa di malato. Dal 1948 a oggi, l’amore scompariva, la vita scompariva. E abbiamo visto il futuro negli occhi dei giovani, un futuro già rotto. Abbiamo capito che la situazione politica è fissata nelle vite delle persone, che ognuno di noi era fatto a pezzi. Vedevamo come ogni evento, un’intifada, le offensive, l’assedio, avessero un effetto sempre peggiore sulla vita sociale. Scomparivano anche le storie d’amore, nelle difficoltà del quotidiano, nel cercare un lavoro, nella vita di famiglia. L’occupazione decide cosa farai della tua vita.

Nessuna speranza dunque?

Tutte le storie che abbiamo raccolto dal 1948 a oggi sono bellissime, donne e uomini che vivono insieme o lavorano insieme, che hanno dei figli, che costruiscono una casa. Tutte cose per cui le persone si battono per garantirsi un’esistenza e con cui combattono l’occupazione. Ma ogni volta l’oppressione ci rende la vita più terribile. A quel punto, di fronte a tantissime storie, abbiamo provato a pensare a come ridarle indietro. Lo abbiamo fatto dopo un training in danza contemporanea: muovendo le storie e muovendo il tempo, muovendo ogni momento per mostrare quanto di nascosto c’è dietro la danza. Non volevamo dire tutto con il corpo, ma qualcosa. Volevamo dire che la storia è malata, come un virus che cresce e uccide l’amore delle persone.

Qual è stata la reazione del pubblico a Gaza?

La gente ama questo spettacolo perché genera un grande dibattito nel pubblico e tra gli attori. Dopo la performance tutti fanno domande, come a cercare una soluzione. Il teatro è sempre pieno, chi ha visto lo spettacolo ci porta altre persone, studenti, associazioni, altre compagnie. Alla prima c’erano 350 persone, c’era gente affollata fuori, seduta sulle scale. Dovevamo fare 20 repliche, ne abbiamo fatte 40. E alla fine di ognuna è nato un lungo dibattito, la gente aveva voglia di parlarne.

Attrici e attori sono tutti giovanissimi.

Hanno tra i 20 e i 35 anni. Hanno amato lo spettacolo perché parla anche del futuro, del loro futuro, di cui hanno voglia di parlare. Le storie raccolte parlano del passato e del presente ma anche di quanto potrebbe accadere dopo e dei problemi della vita sociale a Gaza. I ragazzi hanno iniziato a porre domande, a cercare di capire cosa possono fare insieme e come possono aggiustare il proprio futuro. Tantissimi giovani se ne vanno da Gaza, vanno in Turchia, in Europa, perché qui non hanno alcuna sicurezza, nessuna normalità. Se la prendono con la guerra, ma anche con il loro governo, perché non hanno voce in capitolo, non vengono coinvolti.

È uno spettacolo che può parlare anche ad altre realtà?

Sì, lo fa. Le stesse domande che ci poniamo a Gaza se le pongono altrove. Come altrove si combatte.

Ci racconta la storia unica di Ayyam al Masrah?

È nato nel 1995 a Gaza, poi è arrivato anche in Cisgiordania. Dal 2000 è stato registrato ufficialmente così abbiamo iniziato a rilasciare diplomi in teatro, animazione, storytelling. Abbiamo programmi per i giovani e i theatre club per i bambini dai 12 anni, imparano a lavorare insieme, a usare i social media, a fare filmati con il telefono, a mettere in pratica le loro idee e a darsi voce. È nato per riempire un vuoto, le persone hanno bisogno di uno spazio per parlare, per confrontarsi. Dalle loro storie sono nati gli spettacoli e gli workshop, che poi condividiamo con il pubblico. Il primo spettacolo si chiamava “Mothers”, a vederlo arrivarono 200 donne, e anche lì partì una lunga discussione. Invece di un’ora siamo rimasti lì tre ore perché tutte le donne presenti volevano parlare. Da lì è nato il programma di storytelling per le donne.