C’è tempo fino a «metà dicembre» per assistere allo show di gaffe, confusioni e approssimazioni del Movimento 5 Stelle sul sussidio di povertà detto impropriamente «reddito di cittadinanza». È quanto ha annunciato ieri a Bruxelles il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio, dopo un incontro con la commissaria europea al lavoro Marianne Thyssen. Nel frattempo, Di Maio è caduto in un tranello che si è costruito da solo, quello delle «5 o 6 milioni di carte di credito» in corso di stampa e sulle quali dovrebbe essere accreditato un sussidio che ancora non c’è. Sarà stato il gusto di dimostrare l’efficienza di un governo affannato. Sarà stato l’impegno a ribadire che la posta di bilancio c’è – e non si cambia – nella «rimodulazione» proposta da Conte al presidente alla Commissione Ue. Sarà stata l’eccessiva sovra-esposizione mediatica, che lo costringe a rivelare una certa vulnerabilità come nel «complotto della manina» da Vespa. Sta di fatto che Di Maio ha costruito un caso sul nulla. Tutto da solo. C’è il sospetto che siamo solo l’inizio.

DI MAIO IERI HA ESCLUSO che le «Poste» – questa è l’ultima rivelazione, non l’Inps (ha confermato il presidente Boeri) – abbiano già stampato le carte per il «reddito». Se lo avessero fatto, le carte avrebbero dovuto avere già un nominativo dei «poveri assoluti»; avrebbe dovuto essere chiarito il criterio Isee (7,8,9 mila euro?) in base al quale determinare la platea dei beneficiari. Nel caso in cui fossero andate in stampa, ma così al momento non sembra, sarebbe stato necessario un bando della durata minima di un mese; una gara europea; i tempi tecnici per dichiarare un vincitore; stabilire l’entità della spesa; avviare la produzione.

«NON ESISTE UN GIALLO», sostiene Di Maio. Ma qualcosa deve esserci visto che si è reso conto della smargiassata dichiarata in un talk show qualche giorno fa. «Da due settimane – ha rettificato – ho dato ordine al mio staff di lavorare con Poste per avviare tutto il progetto del reddito di cittadinanza, che include anche la stampa delle tessere». Tra «dare un ordine allo staff» e «stampare 5-6 milioni di tessere» una differenza esiste. Soprattutto se manca una legge di riferimento che sarà, forse, approvata dal consiglio dei ministri dopo la legge di bilancio. E poi dovrà passare dal parlamento, e poi essere dettagliata da norme applicative. Un lungo percorso, impossibile da chiudere entro aprile 2019, un mese prima delle elezioni europee quando i Cinque Stelle passeranno all’incasso elettorale. Allora ci saranno le tessere dove versare gli 8 miliardi di euro stanziati, ma non la riforma epocale dei centri per l’impiego: l’annunciata ortopedia del controllo sociale, la trasformazione del «povero» in «occupabile» con il quale il governo conta di dimostrare che la «crescita» esiste.

IN QUESTA COMMEDIA degli equivoci non aiutano le disordinate uscite televisive, e in commissione Bilancio che sta esaminando l’articolo che introduce il fondo per il «reddito di cittadinanza», della sottosegretaria all’Economia Laura Castelli (M5S). Il Pd ha trovato l’osso da mordere e ha fatto del caso autoprodotto in casa Cinque Stelle la sua bandiera. Ieri Castelli è stata incalzata anche dai deputati Pd Maria Elena Boschi e Luigi Marattin. Caterina Bini e Simona Malpezzi (Pd) hanno chiesto: «Siamo di fronte ad un danno erariale o all’ennesima bufala? Siamo pronti a denunciare Di Maio e Castelli». Quello che il Pd (e la vasta area che supporta la proposta) non accetta è che il «reddito di inclusione» (ReI) sia stato assorbito dal nuovo sistema che attribuisce un ruolo centrale ai centri per l’impiego e sembra eliminare il ruolo dei comuni e del privato sociale. Così non dovrebbe essere, ha spiegato tempo fa Di Maio. Ma, senza un testo, anche questo aspetto resta misterioso e attaccabile.

NELLA SURREALE CONTESA è del tutto rimossa la vera questione politica: il contrasto della povertà non nasce dallo scontro tra chi auspica l’adozione di un modello migliore per disciplinare la vita dei poveri, ma dalla loro libera capacità di autodeterminarsi anche attraverso un reddito sganciato da ogni condizionalità. In fondo a questo allude anche il «reddito di cittadinanza». Quello vero.