«Avvocato del diavolo». Così il portavoce del governo israeliano ha definito il Sudafrica dopo che, lo scorso 29 dicembre, ha formalmente accusato di fronte alla Corte internazionale di giustizia (ICJ) lo Stato ebraico per la violazione della Convenzione sul genocidio. Il governo israeliano ha assicurato che comparirà all’Aja per difendersi da questa «dannata assurda calunnia (absurd bloody libel)».

Perché il governo Netanyau non si limita alle accuse di antisemitismo e complicità con il terrorismo, ripetute ormai decine di volte nei confronti di esponenti di istituzioni internazionali e organizzazioni per i diritti umani, da Guterres in giù?

La Corte internazionale di giustizia (ICJ) è il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, e opera dal 1946. Non va confusa con la Corte penale internazionale, che giudica i singoli accusati di crimini internazionali, la cui competenza è limitata dalla mancata adesione delle principali potenze geopolitiche del globo, e la cui breve storia non è felicissima. Il suo procuratore capo si è espresso sul conflitto di Gaza, con alcune preoccupanti ambivalenze che abbiamo avuto modo di segnalare.
La ICJ, invece, decide sulle controversie giuridiche fra Stati. Il Sudafrica rileva che una tale controversia esiste con Israele perché, per bocca di suoi rappresentanti e infine con una nota ufficiale ha accusato Israele di genocidio, accusa che Israele ha sdegnosamente respinto.

Sia il Sudafrica che Israele aderiscono alla convenzione del 1948 contro il genocidio. Nel ricorso presentato all’ICJ il Sudafrica documenta nel dettaglio le violazioni commesse dallo Stato ebraico. Dal 7 ottobre Israele ha ucciso oltre 20.000 palestinesi, il 70% donne e bambini, causato l’evacuazione forzata dell’85% della popolazione civile di Gaza, ridotto alla fame e alla sete la popolazione assediata, prodotto danni fisici, traumi psicologici, trattamenti inumani e degradanti; non ha provveduto, anzi ha compromesso, adeguati rifugi, vestiti, igiene, fino all’uccisione dei rifugiati; devastato il sistema sanitario fino ad attaccare ospedali e ambulanze e uccidere medici e infermieri; distrutto la vita comune dei palestinesi, sradicato la memoria storica e ucciso figure preminenti della società civile; non ultimo, compromesso la nascita stessa dei palestinesi attraverso la «violenza riproduttiva inflitta alle donne palestinesi, ai neonati, agli infanti e ai bambini».

Il documento sudafricano offre un’agghiacciante fenomenologia dell’orrore, ma tutto questo potrebbe non bastare: per la convenzione del 1948 si consuma il genocidio se vi è «l’ intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale» (art. 2). Per dimostrare che vi è dolus specialis il documento riporta le dichiarazioni di esponenti israeliani, dal presidente Herzog al premier Benjamin Netanyahu, ai comandanti militari, fino a opinionisti le cui dichiarazioni non sono state in alcun modo contrastate (violando l’obbligo alla prevenzione del genocidio). Un’agghiacciante galleria di espressioni come «lotta fra i figli della luce e i figli delle tenebre, fra l’umanità e la legge della giungla». Si evoca il destino di Amalek, i palestinesi sono deumanizzati, si nega la distinzione fra miliziani e civili, fino a invocare la «cancellazione di Gaza dalla faccia della terra».

Il Sudafrica è consapevole che «l’atto di genocidio è parte di un continuum», come teorizzato dall’intellettuale ebreo Raphael Lemkin che ha coniato il termine. E opportunamente si richiama la storia e la geografia di Gaza, la condizione della Cisgiordania e di Gerusalemme, l’attacco del 7 ottobre che viene inequivocabilmente condannato, i 75 anni di Apartheid, i 56 di occupazione e i 16 del blocco di Gaza.

Sulla base dell’art. 41 dello statuto della ICJ, il Sudafrica chiede «provvedimenti provvisori» che impongano a Israele di fermare la guerra e prevenire il genocidio, e secondo l’articolo 74 del Regolamento richiede al Presidente «di proteggere il popolo palestinese di Gaza intimando a Israele di fermare immediatamente gli attacchi». Sulla base della sua giurisprudenza precisa che la corte non deve stabilire se la violazione della convenzione «esiste», ma solo se è «almeno plausibile» ossia «fondata su una possibile interpretazione» della Convenzione, se c’è insomma un rischio reale di genocidio.

Una decisione di questo tipo da parte del massimo organo giudiziario delle Nazioni Unite sarebbe qualcosa di molto diverso dalle esortazioni in potere dell’Assemblea generale, né ci sarebbero diritti di veto come nel Consiglio di sicurezza. Non è difficile capire perché il governo israeliano è preoccupato.