La bara è entrata e uscita con leggerezza, da via dei Volsci 159. Senza protocollo, senza un cerimoniale stabilito, l’ultimo saluto a Benedetto Vecchi non poteva trovare luogo più naturale – se non la troppo piccola sede del manifesto – che l’Atelier di Esc, uno spazio di “movimento” che gli assomigliava e gli apparteneva. Di più: come ha spiegato Francesco Raparelli facendo gli onori di casa, «Benedetto, insieme a Paolo (Virno, ndr) e Marco (Bascetta, ndr) hanno fatto questo luogo, le loro idee lo hanno forgiato».

Più difficile trovare le parole per descrivere il vuoto che lascia, per lenire il dolore e la tristezza, e fare onore a quella che Sandro Mezzadra ha definito «una intelligenza straordinaria, che sapeva coniugare acume politico e grande umanità».

Ma poi, ancora una volta, a tirarci fuori dall’impasse è arrivato il sorriso di Ben.

E così quei tre o quattro mondi diversi che, come ha notato Marco Bascetta, si sono rincontrati ieri mattina nella grande sala di Esc, riempiendola tutta, richiamati dalla fitta tela di connessioni che Benedetto ha intrecciato nella sua vita, hanno trovato le parole. E rivelato con allegria, amore, commozione ed ironia, ciascuno un pezzetto di quella complessa personalità che esprimeva.

LA VITA PUBBLICA e quella privata intensamente intrecciate, l’amore per Laura e quello immenso per la figlia Marianna, la sua sete intellettuale, l’insaziabile curiosità, la rara capacità di costruire, il piacere di vivere. La tenerezza.

Le foto e i video curati dai grafici del manifesto e proiettati sulla parete ne evocano frammenti, la musica di Bruce Springsteen è un blues di dolore.

«Lettore instancabile, voleva costruire università diffuse dappertutto – ha ricordato Raparelli – una volta mi scrisse: “Ciascuno fa quello che può, quando e come può”. E lui è stato all’altezza di ciò che gli è accaduto, sempre». È stato «un compagno» attento e affettuoso per Ella Baffoni, amica e collega del primo manifesto; un «punto di riferimento» per Hanay del gruppo Ippolita di Milano; un amico carissimo che «sapeva fare da collante tra tanti mondi, anche tra quello maschile e femminile», per Giovanna Ferrara che ha evocato «il divertimento» che si provava in sua compagnia, e la «passione sfrenata per il rito del pettegolezzo».

 

 

Era un modello per Teresa Numerico, per «la sua capacità di vedere gli altri per ciò che sono» ma anche per il rapporto costruito con sua moglie Laura, «una donna straordinaria che lo ha accompagnato fino alla fine con dolcezza e solidità». «Insieme sapevano giocare e divertirsi, anche in questi strazianti tempi. Anche come coppia ci lasciano una grande eredità». «Il rapporto con Laura lo ha aperto al femminismo», aggiunge Anna Simone che ricorda la sua «straordinaria capacità di godere della vita e, da vero comunista, di godere del godere degli altri». Era l’unico, per esempio, che ha saputo far ubriacare Stefania Giorgi, inseparabile amica e collega di una vita. E suo marito, Nazario Dal Poz, che «io non ci sono mai riuscito», avrebbe voluto «una rivincita». È amore puro.

PER BENEDETTO «FARE VOLEVA dire studiare», dice un suo amico: «Mai sentito dirgli una frase consolatoria come “ce la faremo”, né una arrendevole come “non si può fare”». «È vero, lui faceva», conferma il condirettore del manifesto, Tommaso Di Francesco, testimoniando come fosse «ben motivata la sua perseveranza a continuare la storia di questo quotidiano». «Schivo, allegro e soccorrevole – lo definisce Di Francesco – fu capace di chiedere “come stai?” all’attentatore che nel 2000 rimase ferito dall’esplosione della bomba che aveva piazzato nella nostra redazione».

«AVEVA I PIEDI nella strada e la testa nella tecnologia», sintetizza Arturo Di Corinto. Ma fare per il nostro presidente di cooperativa voleva dire anche dare. Gratuitamente. Se lo ricorda bene Aldo Garzia: «Al giornale avevamo un pessimo rapporto ma quando sono stato male mi è stato vicino con gesti che non mi aspettavo proprio».

Garzia è un testimone diretto delle vicende umane e politiche del nostro collettivo: «Qui oggi ci sono varie anime del manifesto, fatto di generazioni e individualità diverse che negli anni si sono anche divise in modo aspro. Ma Ben ci ha insegnato a guardare ciò che ci unisce, non ciò che ci divide. E il rispetto reciproco, anche da posizioni apparentemente inconciliabili».

Anche Stefano Menichini, che faceva parte «di una vita molto remota di questa comunità», evoca «l’ironia, tutt’altro che leggera» con cui sapeva maneggiare la distanza: «Se l’espressione di un punto di vista diverso fosse affidato al sorriso di Ben, la politica sarebbe una pratica più umana e piacevole».

«IL PIÙ VECCHIO dei giovani e il più giovane dei vecchi», come lo ha definito Mezzadra che con lui ha condiviso varie «imprese esistenziali militanti e politiche» è sempre rimasto un ragazzo del ’77. «Nel ’75, a Primavalle – racconta Fausto, un amico di gioventù – giurò che un giorno avrebbe lavorato al manifesto. E la cosa, vi assicuro, non sembrava più realistica di chi diceva di voler fare l’astronauta o l’esploratore. Quando ci riuscì, festeggiammo».

E al manifesto Benedetto fu prima tecnico informatico, poi giornalista, caporedattore culturale, e infine presidente del Cda e della cooperativa.

Norma Rangeri, la direttrice, ripercorre la strada fatta assieme a quell’«uomo colto e intelligente, che si è rimboccato le maniche, si è messo a studiare anche materie ostiche e improbabili, ed è riuscito nell’impresa». Abbiamo riacquistato la testata e «abbiamo vinto», dice con orgoglio.

E quest’anno festeggeremo i 50 anni. «Se siamo arrivati qui è per le ragioni politiche e umane che Ben incarnava. Era uno dei leader della nostra comunità. La sua dolcezza è un patrimonio politico, non personale. E se riusciremo a portare un po’ del suo sorriso, dell’ironia, la sua cultura e la sua intelligenza nelle nostre vite – è la conclusione confortante, importante, di Rangeri – il futuro del manifesto sarà bello. E durerà altri 50 anni».