Editoriale

Il silenzio sull’apartheid a Gaza

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Elemosina e complicità In gioco c’è la questione, ormai, ineludibile dei diritti del popolo palestinese

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 10 agosto 2014

Le famiglie erano tornate nelle loro case senza trovarle, i bambini giocavano vicino ai funerali dei loro coetanei, i pescatori gettavano reti senza speranza. 72 ore senza bombardamenti israeliani, ma dal Cairo non potevano arrivare né l’estensione della tregua né la pace. Perché i palestinesi sono soli. Per i governi europei, che i territori palestinesi restino occupati è un fatto marginale. Il governo italiano dell’ex scout Renzi che ha taciuto su tutti massacri di questi giorni, è impegnato in uno sforzo di diplomazia parrocchiale: invia alla gente di Gaza, pensate, 30 tonnellate di aiuti. Gli aiuti servono e quel che resta della sinistra deve raccoglierli, a partire dai medicinali e sostenendo le organizzazioni umanitarie palestinesi. Ma per favore basta elemosina e complicità. Perché l’Italia tace sul Trattato militare in vigore con Israele e non fa come la Spagna che, simbolicamente, ha fermato per un mese l’import-export di armi con Israele.

Si è preferito dimenticare che la tregua annunciata di fatto era unilaterale e che Israele andava al Cairo solo per dettare condizioni: zona smilitarizzata, e di più, tutta Gaza smilitarizzata, fine dei tunnel e dei razzi, verso l’esclusione di Hamas dal governo della Striscia, come dichiara il ministro israeliano Tzipi Livni. I 29 giorni di «Margine protettivo», con la strage di quasi duemila palestinesi uccisi, in maggioranza civili e tanti bambini, di ottomila feriti tra cui molti gravissimi e senza cure adeguate, di centinaia di migliaia di senza casa con l’odio che è stato seminato, non hanno certo aperto nuovi spiragli alla crisi.

Che non è il «conflitto israelo-palestinese» come scrivono i giornalisti embedded – ma nemmeno il giornalismo che abbiamo conosciuto esiste più? -, come se fossero due parti eguali, due stati legittimi e due eserciti di eguale forza. No. In gioco c’è la questione, ormai, ineludibile dei diritti del popolo palestinese.

A meno che non si voglia approfittare della perversione coloniale dei tanti governi israeliani, non solo di Netanyahu: una guerra breve ogni due-tre anni con un deserto chiamato pace, quel tanto da mettere la questione dei diritti del popolo palestinese in sordina, sullo sfondo, grazie alle distruzioni e alle falsificazioni che allontanano la consapevolezza di un misfatto: il blocco di Gaza. Che deve essere tolto, e questo obiettivo non dovrebbe essere solo di Hamas ma del mondo intero. Che dovrebbe ricordare che il blocco è stato imposto da Israele – invece di rispondere alla necessità di un corridoio di collegamento tra Gaza e Cisgiordania occupata in vista della nascita dello Stato di Palestina – per arginare l’emergenza rappresentata da Hamas, che nel 2006 vinse le elezioni palestinesi non solo a Gaza ma in tutta la Cisgiordania, affermandosi in alternativa alla nuova leadership di Al Fatah emersa dopo l’umiliazione di Arafat chiuso dai carri armati israeliani a Ramallah nel 2002 e la sua uccisione nel 2004. Una leadership giudicata dagli stessi palestinesi corrotta e contaminata dal legame con le intelligence occidentali, quella Usa in primis, impegnate a controllare e ad infiltrare ogni scelta autonoma dell’Autorità nazionale palestinese e a reprimere ogni dissenso e radicalità. Qualcuno ricorda le modalità dell’arresto dell’unico vero leader del popolo palestinese, Marwan Barghouti? La rottura tra Hamas e Fatah fu anche violenta a Gaza City e viceversa a Ramallah. Ma dopo sei anni, e soprattutto di fronte all’inasprirsi dell’occupazione militare israeliana, delle colonie, del Muro che sarà raddoppiato, della rapina delle acque e della distruzione dell’agricoltura palestinese, della riduzione della West Bank in una grande prigione di cemento, ecco che è tornata l’unità tra i palestinesi di Gaza e di Cisgiordania. Ecco il vero «razzo Qassam» che Netanyahu non può sopportare.

Certo Hamas ha le sue responsabilità. I razzi che lancia non sono nemmeno la guerra asimmetrica di una guerriglia armata: sono un niente controproducente, un regalo a Netanyahu. E vantare «vittoria» come fanno le Brigate Ezzedin al Qassan sembra un triste delirio d’impotenza. Ma tra le macerie emergono alcune novità e una verità. In questi giorni – mentre, nonostante le distruzioni della guerra, sembra crescere anche in Cisgiordania il consenso per Hamas e in calo quello da Al Fatah – l’Anp chiede alla Corte dell’Aja le modalità per aderire al Tribunale penale internazionale dell’Onu e incriminare così il governo israeliano. Se è ingenuo pensare che l’iter andrà davvero avanti, non va dimenticato che la richiesta di aderire alle Agenzie dell’Onu resta l’ultima occasione per la credibilità di Abu Mazen e l’ultima vera possibilità palestinese; mentre cresce la solidarietà inter-palestinese con un pezzo del proprio popolo che vive nell’altra prigione di Gaza, dove se resta il blocco – e i valichi con l’Egitto chiusi dal golpista Sisi -, sarà inevitabile e giusto scavare altri tunnel per vivere e far entrare beni di prima necessità. E la verità, amara, è che se Hamas smettesse subito di lanciare i razzi, la condizione palestinese resterebbe sempre la stessa: un popolo esiliato in tutto il Medio Oriente, abitante dei campi profughi nella sua stessa terra, chiuso da Muri di recinzione e posti di blocco, invaso da una ragnatela di colonie d’occupazione e insediamenti che hanno cancellato la continuità territoriale dello Stato di Palestina, che rubano occasioni di vita e lavoro, diviso in due territori, uno alla mercé della guerra breve continua, l’altro semplicemente colonizzato e zittito. E senza alcuna prospettiva di integrazione con il nemico occupante, se non lo status perenne di occupato.
Jimmy Carter, l’ex presidente americano che ora chiede all’Occidente di riconoscere Hamas, ha titolato «Apartheid» il suo bel libro sulla condizione palestinese. Obama purtroppo, a quanto pare, non l’ha nemmeno sfogliato.

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