Adesso che c’è una sentenza di condanna a riconoscere anche dal punto di vista giudiziario la vera sorte di Stefano Cucchi, Alessio Cremonini, regista e cosceneggiatore del film Sulla mia pelle diventato cult perfino fuori dai confini italiani lo dice con orgoglio: «Questa è una delle rarissime volte in cui la verità arriva prima in sala e poi nelle aule di giustizia».

Alessio Cremonini

Sollevato dalla sentenza?
Sì, finalmente una buona notizia, dopo giorni di pessime. Tre a uno. Nel senso che dopo l’Ilva, Venezia e la senatrice Liliana Segre costretta ad avere una scorta, almeno un po’ di luce nel buio. Sa, in questo periodo sto scrivendo per Einaudi un romanzo ispirato alla storia della mia famiglia da parte di madre, che è tedesca. Sappiamo bene cos’è il nazismo, io sono allergico a qualsiasi forma di antisemitismo, figuriamoci su una donna di 89 anni meravigliosa come Segre. Perciò la sentenza Cucchi è stata una boccata d’ossigeno, anche perché ti si stringe il cuore a vedere i genitori di Ilaria, così civili, così rispettosi, così poco prevaricatori, e ti chiedi perché non tutta Italia è come loro. Quando vedi la loro dignità capisci perché Ilaria ha combattuto, da dove viene la sua forza.

Siamo solo al primo grado di giudizio e la giustizia – come dice lo stesso avvocato Fabio Anselmo – la fanno le persone. Perciò la lotta non è finita. Ma se anche questo processo si fosse concluso con un nulla di fatto, tutti assolti?
Non mi avrebbe stupito, lo dico con molta amarezza. La vicenda Cucchi, grazie ai suoi protagonisti, è un’eccezione di questo Paese, e questo è anche il più bel complimento che si può fare alla famiglia di Stefano.

Con questa sentenza sente di aver raggiunto il suo scopo? Non era forse questo il fine del film: smuovere le coscienze e “oliare” il corso della giustizia?
Certo, ma non solo: come avviene a voi giornalisti, abbiamo scelto un soggetto che toccava le nostre corde e contemporaneamente volevamo fare un film che mettesse lo zampino in una questione tabù. E il fatto che un gruppo di persone abbia avuto il coraggio di fare il contrario di ciò che si fa abitualmente – il film dopo la conclusione giudiziaria – credo sia una buona cosa per il cinema italiano.

Durante la realizzazione del film le è capitato di cambiare idea riguardo alla storia di Stefano?
Guardi io non sono ideologico, sono molto empirico, sono come San Tommaso, e lo dico da cattolico credente. Non avevo convinzioni preconcette: scartabellando i verbali piano piano ci siamo fatti un’idea di cosa era accaduto. Tanto è vero che il film non è stato smentito da questa sentenza, anzi.

Farà un sequel seguendo il processo sul depistaggio che si aprirà il 16 dicembre?
No, assolutamente no. Ho altri progetti ora: mi piacerebbe tanto fare un film su una donna italo-siriana giornalista Rai, Susan Dabbous, che venne rapita in Siria nel 2013 dall’Isis insieme ad altri colleghi e poi rilasciata dopo dieci giorni.

«Sulla mia pelle» ha commosso e continua a commuovere, è ancora visibile su Netflix, qualche mese fa è stato proiettato al Parlamento europeo ed è entrato anche in qualche sala francese. Quale feedback dall’estero?
Ho ricevuto messaggi un po’ da tutto il mondo, compreso dall’Islanda e dalla Norvegia. Qualche giorno fa addirittura una ragazza cilena che aveva visto il film mi ha contattato su Facebook inviandomi un video delle violenze della polizia del suo Paese e ci ha chiesto aiuto. Terribile…